La recensione

E così Damon Albarn ha rispolverato anche il progetto Blur

A otto anni di distanza dal precedente «The Magic Whip» ecco il nuovo album «The Ballad Of Darren»
Damon Albarn. © Shutterstock
Alessio Brunialti
27.07.2023 00:00

Chi è Darren e perché tutti stanno parlando bene di lui? Innanzitutto è un disco, un disco importante perché è dei Blur e perché arriva a otto anni dal precedente (The Magic Whip), che segnava l’insperata reunion della band di Damon Albarn, che recuperava in formazione, oltre alla sezione ritmica del bassista Alex James e del batterista Dave Rowntree anche il secessionista Graham Coxon, che se n’era andato prima di Think Tank, pubblicato ormai vent’anni fa. Eh sì, come gli altri gruppi dell’ondata brit pop, anche i Blur sono storia, con i brillanti esordi sempre più lontani nel tempo. E in tutti questi anni, Albarn ha fatto tali e tante cose – i Gorillaz sono solo la punta di un iceberg – da far considerare la sua vecchia band solo come una piccola parte della sua carriera.

Forse anche per questo le note che accompagnano Darren riportano dichiarazioni di tutti e quattro, per sottolineare che Damon è, semmai, primo inter pares. «Questo è un album di assestamento, una riflessione e un commento sul punto in cui ci troviamo ora», dice lui. Secondo Coxon «più invecchiamo e più ci arrabbiamo, diventa sempre più essenziale che ciò che suoniamo sia carico della giusta emozione ed intenzione. A volte un semplice riff non basta». La versione di James: «Per far durare una relazione a lungo termine con un qualche significato, bisogna essere in grado di sorprendersi a vicenda in qualche modo e in qualche modo tutti noi continuiamo a farlo». Infine Rowntree, il «vecchio» del gruppo (è il più vicino ai 60): «È sempre molto naturale fare musica insieme. A ogni album che facciamo, il processo rivela qualcosa di nuovo e ci sviluppiamo come band. Non lo diamo per scontato».

Poi uno ascolta le canzoni, a iniziare dalla ballad The Ballad (ehm...) che inaugura questo lavoro, e ha la netta sensazione che ci sia più continuità con certi progetti paralleli – The Good, The Bad & The Queen, ad esempio – rispetto a classici come Parklife o The Great Escape. Non si tratta, assolutamente, di un brutto album, ma la personalità artistica del leader è quella assolutamente preminente. Il rock di un brano come St. Charles Square, in questo contesto, è un’eccezione. Meglio l’elettropop di Barbaric e Goodbye Albert, il quasi lounge di The Narcissist, ma soprattutto i lenti, estenuanti, ma anche affascinanti Russian Strings, The Everglades (For Leonard) (Cohen, ovviamente), Far Away Island e Avalon mentre la chiusa, The Heights ha un crescendo maestoso al calor bianco che sarebbe piaciuto agli ultimi Beatles.

Un album dei Blur più di nome che di fatto, ma per chi pensa che Damon Albarn sia i Blur, è sicuramente un bel disco.