È passato un anno, ma tutto l'orrore è rimasto intatto
Un viaggio nell’orrore. A un anno dal massacro del 7 ottobre, nel giorno che per sempre ha cambiato Israele, girare tra i kibbutz e il luogo del festival Nova, teatri dell’eccidio, è una ferita che continua a sanguinare, parlando con i sopravvissuti. Molti hanno ancora familiari ostaggi o barbaramente uccisi dalla furia dei miliziani di Hamas e degli altri gruppi gazawi.
Quel giorno gli attacchi causarono la morte di oltre 1.188 persone, 885 civili. L’azione dei terroristi ha lasciato oltre 4.800 feriti, 251 gli ostaggi presi, 101 ancora nella Striscia tra i quali 40 cadaveri. Alcuni corpi sono rimasti non identificati a causa di mutilazioni sostanziali. Almeno 21 ostaggi sono stati assassinati da Hamas o dalla Jihad islamica palestinese a Gaza. Otto gli ostaggi salvati dall’esercito in due operazioni distinte e 111 quelli rilasciati durante le trattative tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre. Tra i sopravvissuti, 30 donne hanno denunciato abusi sessuali da parte dei loro rapitori.
Numeri che dovrebbero bastare a descrivere l’orrore. Invece, complice anche la guerra scatenata da questa azione (che ha portato ad oggi Israele ad essere impegnato su sette fronti simultaneamente) ha spostato l’attenzione e, in troppe occasioni, si è confusa la vittima con i carnefici. La guerra non è mai la risposta ad alcuna domanda. Ancor di più un’azione terroristica come quella del sette ottobre.
L’assenza di fiducia
Al kibbutz Be’eri, ciò che subito colpisce è la puzza di bruciato. Qui, su 1.200 persone che ci vivevano, sono state uccise sul posto 90 persone, altri 13 in cattività. Trentasette furono rapiti, 21 sono stati liberati e 3 sono ancora a Gaza. Poco prima delle 6 del mattino, circa 90 terroristi armati arrivarono al kibbutz uccidendo civili dai veicoli per poi disperdersi nei quartieri di Be’eri, sparando e lanciando molotov contro le case per dar loro fuoco con gli occupanti intrappolati all’interno. I resti dell’assalto si vedono ancora. Case distrutte, bruciate. L’odore acre ancora oggi penetra nel naso. Qui circa l’80% dei corpi recuperati mostrava segni di tortura. I primi soccorsi hanno descritto persone con le mani legate, bruciate vive, corpi trovati decapitati e intere famiglie massacrate.
«Ancora oggi - mi spiega Alon Pauker, sopravvissuto con la moglie al massacro, dopo che si è trincerato nel bunker antiaereo per 18 ore - noi siamo per la pace e per una soluzione al problema palestinese. Questo kibbutz lavorava per aiutare i gazawi, organizzavamo trasporti verso gli ospedali. Eppure siamo stati decimati. Non cerchiamo vendette ma vogliamo vivere in pace». «Non possiamo più avere fiducia - ribatte Danny Majzner, sopravvissuto di 63 anni che nel massacro a Be’eri ha perso una sorella - dei nostri vicini a Gaza. Purtroppo se sei nato a Gaza, cresci con l’idea che devi andare contro Israele. La fiducia si costruisce passo dopo passo e ci vuole una volontà che non vedo dall’altra parte. Con i gazawi, con i palestinesi, non può esserci un futuro di collaborazione». Youval quella mattina era nel deserto. I terroristi hanno ucciso suo padre, rapito madre, sorella, cognato e i nipoti, tutti liberati a novembre, tranne il cognato. La casa nella quale si erano nascosti, è stata bruciata, così che uscissero. «Da allora - spiega - non sono più entrato a casa mia. Dobbiamo capire come costruire un futuro migliore. Non vogliamo questo diventi un museo, ma il sacrificio di tanti deve essere ricordato». E mentre parla, si sentono le esplosioni nella vicina Gaza, a pochi chilometri.
Testimonianze drammatiche
Negli altri kibbutz la situazione è simile. A Kfar Aza, Zohar Schpak ha ancora i segni delle bruciature delle mani per cercare di tenere chiusa la porta blindata del rifugio, che è progettato contro i razzi, ma non contro le invasioni. Insieme ad altri, sta facendo causa ad Hamas. Ha raccolto testimonianze di abusi sessuali contro vivi e contro morti, violenze inaudite. «Oltre ai miliziani - spiega - sono entrate migliaia di persone da Gaza per partecipare ai massacri. Hanno distrutto il nostro sogno. Io stesso accompagnavo i bambini di Gaza in ospedale, volevamo promuovere una generazione che parlasse di pace. Non tutti i gazawi hanno preso parte all’eccidio, ma sono tutti colpevoli, perché culturalmente hanno appoggiato questo massacro. Hanno lasciato due bambini vivi in una casa, dopo aver ucciso la loro famiglia, così che chiunque entrasse per salvarli, sarebbe stato ucciso. Cerchiamo ancora la testa di una vittima. È stato orribile». Sulle case, i segni indicano quanti cadaveri, che tipo, se sono state “ripulite” da bombe, sangue e corpi.
Diritti calpestati
«La mia famiglia - spiega tra le lacrime dall’asilo del kibbutz Nir Oz Yfat Zailer, zia di Kfir e Ariel Bibas, i bambini di uno e quattro anni a Gaza - è stata cresciuta per credere nella pace, nei due Stati, che dall’altra parte ci sia gente che vuole solo vivere e coesistere. Chiedo il vostro aiuto, come abbiamo chiesto alla Croce Rossa, all’Unicef. I bambini non c’entrano niente, hanno solo diritto a vivere». Simcha Greinman è un volontario di Zaka, un’organizzazione ebraica mondiale che si occupa di primo soccorso. È stato il primo ad arrivare sul luogo del massacro al festival Nova. «Non avevo idea di cosa avrei trovato. Già dalla strada principale, ho trovato corpi per terra, auto bruciate. Un percorso di due minuti l’ho fatto in oltre dieci per quanti corpi erano sulla strada. Sono dovuto tornare indietro a prendere un camion. Lo abbiamo riempito con 72 corpi e diversi pezzi di altri».
Un orrore chiaramente visibile in un video di 48 minuti, realizzato dall’esercito, sfruttando le bodycam e gli smartphone dei terroristi, quelli delle vittime e le telecamere di sorveglianza. Un video non censurato, la visione riservata a pochissimi giornalisti internazionali e diplomatici. Per sopravvivere alla visione, bisogna convincersi che si tratti di un film e non la realtà. Decapitazioni con coltellacci e zappe, donne anche già cadavere violentate, bambini uccisi e mutilati, teste portate via come trofeo. Telefonate intercettate con mamme di Gaza che incitavano e lodavano i figli che ammazzavano gli “ebrei”, i “cani”. Cadaveri portati a Gaza ed esposti al pubblico, e persone di ogni sesso ed età, anche minorenni, che si accanivano contro questi gridando “Allah u Akbar”. È davvero grande questo dio?