Ecco la mappa dei tesori di Sonvico
Chi vi scrive non sa nemmeno da dove cominciare. Davvero. La mappa di comunità di Sonvico – spieghiamo il progetto nel box alla fine dell'articolo – è come un forziere pieno di gioielli, ognuno con una sua brillantezza. Elementi del paesaggio, luoghi, tradizioni, leggende, innumerevoli frammenti di cultura locale. Partiamo da un albero: sul monte Roveraccio c’è un castagno monumentale che sembra uscito da un libro di fiabe. Ha una circonferenza di quasi otto metri e un’età stimata fra i 450 e i 750 anni. A scoprirlo, o riscoprirlo, alcuni anni fa, è stato Maurizio Cerri, esperto di alberi da frutto. Il suo racconto merita di non essere interrotto: «Mentre mi prendevo cura di questo vecchio albero ormai vicino alla fine della sua vita, sentivo fortemente di compiere un gesto di gentilezza, di rispetto e di riconoscenza. Mi sembrava di preparare con amore un anziano, lavandolo, pettinandolo, aiutandolo a indossare il vestito bello per una festa, forse l’ultima. Togliendo le foglie dalle radici per mettere in evidenza tutta la sua maestosità, me la ridevo tra me e me e gongolavo per il piacere. Concluso il lavoro, ci siamo fermati ad ammirarlo. Mai come allora mi sono sentito così in sintonia con la natura e l’universo».
In natura ci sono anche i sassi, e alcuni non sono semplici blocchi di pietra. Come il sass dra Maguta, di notevoli dimensioni, che fu in parte demolito per consentire la costruzione della strada. «C’è chi ci vede un luogo di ritrovo delle streghe – leggiamo sulla mappa di comunità – e chi la forma di un animale: un orso o simile. È un reperto che andrebbe protetto». Il sass dra Bara, invece, è un masso si cui si sostava durante il trasporto dei defunti quando la neve impediva di proseguire da Cimadera verso il cimitero di san Martino. Se pensate che quanto descritto finora sia sorprendente, è perché non avete ancora sentito la storia della nuria de Cioásc, la nuvola di Cioascio. «Si presenta ogni giorno da maggio a ottobre nei pressi di Cioásc, nucleo di cascine sui monti di Sonvico. Un tempo, quando si falciava il fieno, era temuta perché foriera di pioggia che avrebbe allungato il periodo di essiccazione o persino messo a rischio la qualità del fieno tagliato. A volte si abbassava anche fino a Pianche, tanto che chi vi aveva le cascine si adirava con quelli di Cioásc credendo che fossero loro a mandargli il nurión», il nuvolone. A proposito di acqua: un tempo ne sgorgava tanta dalla fontana Sgentile. Così tanta che in alcuni periodi dell’anno si formava un laghetto, il laghétt dra Gana, e si poteva farci il bagno.
Un altro «rituale» era la raccolta dei fiori, che i bambini poi portavano alla casa per anziani. A marzo si coglievano i bucaneve nella Valle dei Mulini, a maggio i narcisi nella campagna di Dino e a Pönte, i botton d’oro e i mughetti a Murio e l’aglio orsino al Mulino, dove a giugno si potevano trovare gli asparagi selvatici. Sulla panchina di Limón, invece, si trovava l’amore. «Ci si scambiavano effusioni e primi baci, poi è stata sostituita con rammarico da parte della popolazione». Cambiamo stato d’animo. Gli abitanti di Sonvico ricordano che un tempo, in località Cadrigna, una figura spaventosa detta Omásc si aggirava nei boschi incutendo paura ai passanti. Fino al secondo dopoguerra, poi, gli anziani dicevano che le anime dannate, inseguite da demoni, corressero per Ciovásc e Suasgia. «Questi racconti incutevano molta paura, tanto che si aveva timore a uscire alla sera». Negli anni Novanta, in località Canéd, a mettere soggezione era il «bosco stregato». Poi c’era la Carcavésgia, un misto tra una strega e un essere malefico che trascinava via i bambini a Sasséll e Örte, dove si usava gettare i rifiuti domestici: lo raccontavano i genitori ai loro figli per impedire che si mettessero in pericolo.
Decisamente più «leggera» la filastrocca che componevano gli abitanti di Sonvico e Dino. Quando i primi, detti i Maión, cioè mangioni, apostrofavano i vicini chiamandoli Sbugón, cioè dissenterici, questi ultimi rispondevano: «Num a la fem e vialtri la mangiov», noi la facciamo e voi la mangiate. Gli stessi abitanti di Sonvico erano scherniti da quelli di Villa: «Zocorón, che m i robád or nòss campanón», zoccoloni, che ci avete rubato il nostro campanone. Restando in tema di campane, i loro rintocchi accompagnano da sempre la vita del paese. In passato suonavano quando arrivava il dottore, per l’inizio della scuola, per scongiurare una tempesta. Quando moriva un bambino, si suonava a dirlindana e si recitava, a ritmo delle campane: «Bón per tí, bón per tí, bón per tí se to sè mòrt, e rivedéss in Paradís, bón per tí, bón per tí».
Concludiamo con un sorriso fermandoci virtualmente di fronte all’asilo di Dino. Là, nel 1953, per i 150 anni dalla nascita del Ticino, Dorando Piazza sotterrò una bottiglia di birra, marca Lugano, con all’interno una pergamena. C’erano scritti i nomi dei suoi compagni di classe. Seminò anche un tiglio, che esiste tutt’ora.