Ecco perché sugli Stati Uniti Netanyahu aveva capito tutto
Benjamin Netanyahu aveva capito tutto. Ancora prima dei risultati elettorali, quando ancora le urne erano aperte e gli elettori americani dovevano esprimersi, il premier israeliano ha mostrato di sapere come sarebbero andate le cose a Washington. Lo dimostra il fatto di aver licenziato su due piedi il ministro della Difesa Yoav Gallant, suo compagno di partito, il più americano dei membri del Governo. O, meglio, quello che ascoltava di più la Casa Bianca e il Pentagono, quello che ha tentato sempre, su impulso statunitense, di tenere il freno tirato alla voglia di Netanyahu di correre come un treno sulla via della distruzione a Gaza, in Libano e ovunque la «guerra difensiva» lo portava. Il timing è significativo e rappresenta il più grande endorsement, al di là delle parole, al nuovo/vecchio inquilino di Pennsylvania Avenue e la bocciatura non solo all’uscente, ma anche alla sua vice, candidata alla presidenza.
I rapporti tesi all’interno
Tra Gallant e Netanyahu i rapporti erano tesi da mesi prima del 7 ottobre dell’anno scorso. L’ex ministro della Difesa è stato l’unico che, nel coro dei consensi in Governo, si è opposto alla riforma della Giustizia voluta fortemente da Netanyahu e che l’anno scorso ha spaccato il Paese. Dando poi quella immagine di debolezza che ha anche spinto Hamas a commettere il massacro, sfruttando l’attimo. Ovviamente Gallant, che pure è del Likud, lo faceva anche recependo le preoccupazioni e le pressioni americane. Netanyahu quella questione se l’era legata al dito. Aveva già deciso di cacciarlo, ma non ne ha avuto il tempo, complice il massacro e l’inizio della guerra a Gaza. A quel punto non era possibile farlo, per ragioni belliche. Ma anche per questioni politiche legate agli approvvigionamenti di armi dagli USA, visto che questi hanno più volte minacciato di bloccare le forniture se si andava contro alcune regole di guerra. Era necessario tenere «Gallant l’americano» in governo per avere una sponda con Washington.
Rapporti opposti
Tra Netanyahu e l’Amministrazione Biden non c’è stato mai tanto feeling. Poche le visite e le chiamate. Il premier ha anche vietato ultimamente ai suoi ministri di andare negli States senza il suo permesso. Biden e la Harris sono anche coloro che hanno criticato fortemente, tra le altre, la scelta di Netanyahu di entrare boots on the ground a Rafah a maggio. Dove poi a ottobre è stato trovato e ucciso il capo dei capi Yaya Sinwar, tanto che Netanyahu, in questa occasione, lo fece notare. Rapporto invece opposto con Trump. Netanyahu è talmente vicino al tycoon che, durante la precedente presidenza di quest’ultimo, gli fu anche intitolato un insediamento nel Golan. Trump è stato anche quello che ha favorito gli Accordi di Abramo e ha gettato le basi per l’accordo con l’Arabia Saudita. Trump, tramite suo genero Jared Kushner, è anche il fautore dell’ultimo progetto di pace per il Medio Oriente, con la creazione dei due Stati. Netanyahu non ha mai nascosto di preferire Trump. E il licenziamento di Gallant è stato il chiaro segnale che l’America stava cambiando rotta. «Il più grande ritorno della storia», come Netanyahu ha definito la vittoria di Trump e «il nuovo inizio per l’America e per la solida alleanza con Israele», sono gli slogan che accompagnano la soddisfazione del premier per Trump.
La volontà di Bibi
Premier che ora si aspetta, dall’inquilino della Casa Bianca, almeno due cose: mani più libere e piene di armi per completare i suoi obiettivi di guerra (distruggere Hamas e Hezbollah, far tornare gli ostaggi, impedire che i gruppi terroristici possano ritornare a nuocere) e colpire l’Iran. Gli USA hanno vincolato la risposta israeliana all’attacco iraniano del 1. ottobre ai soli obiettivi militari. Netanyahu ha nel mirino da sempre tre cose a Teheran: le più alte istituzioni, l’economia che significa petrolio e gas, il nucleare. Non dimentichiamoci che fu proprio Trump a bloccare l’accordo sul nucleare iraniano e a imporre nuove sanzioni. Aver messo due suoi sodali, Katz e Sa’ar, in posti chiave, come ministri della Difesa ed Esteri, mostra proprio la volontà di Netanyahu di non avere ostacoli ai suoi obiettivi. Le dichiarazioni entusiaste dei due rispetto alla vittoria di Trump vanno in questo senso.
I timori di Teheran
In una delle sue prime dichiarazioni, Trump ha detto che porterà pace e non farà guerre. Il presidente israeliano Herzog lo ha salutato come «campione di pace». Anche Hamas si è attaccata a questa dichiarazione di Trump, dicendo che sarà messo alla prova per le sue dichiarazioni secondo cui è in grado di fermare la guerra in poche ore, esortandolo a imparare, per non ripeterli, dagli errori fatti da Joe Biden. Abu Mazen ha detto - complimentandosi per la vittoria - che si aspetta che Trump porti avanti le legittime aspirazioni palestinesi all’indipendenza e all’autodeterminazione. Lo stesso Trump che aveva trasferito l’ambasciata israeliana a Gerusalemme e aveva chiuso quella palestinese a Washington (mai riaperta da Biden nonostante le promesse). L’Iran, dal canto suo, ha ridotto la portata della vittoria di Donald Trump. È chiaro che da Teheran speravano in una vittoria di Kamala Harris, per alleggerire le sanzioni che, con il finanziamento ai gruppi che hanno attaccato Israele da Libano, Gaza, Cisgiordania, Siria, Iraq e Yemen, potrebbero anche peggiorare. Non soltanto: senza il freno americano, anche se Joe Biden ha sempre mostrato sostegno alle operazioni israeliane soprattutto in chiave anti-Iran e di difesa, Teheran teme fortemente che Gerusalemme attacchi quanto prima l’ex Persia, in un raid preventivo, visto che la tanto minacciata risposta iraniana al raid del 25 ottobre non arriva. E, visto che le difese aeree iraniane pare siano distrutte e che Benjamin Netanyahu ora si sente le mani libere, ciò potrebbe risultare in un vortice militare di indubbie proporzioni.