L'analisi

«A decidere la contesa negli Stati Uniti saranno ancora i temi economici»

L’emotività generata dall’attentato di Butler spinge le quotazioni di Trump per la corsa alla Casa Bianca – Gli americani però guardano al portafoglio per premiare o punire chi ha governato – Secondo Luca Paolazzi (Ceresio Investors): «L’inflazione ha lasciato il segno tra le minoranze etniche vicine a Biden»
©Carolyn Kaster
Generoso Chiaradonna
17.07.2024 06:00

Le probabilità di una vittoria di Donald Trump alle presidenziali del prossimo 5 novembre sono aumentate tantissimo dopo il terribile tentativo di assassinio subito dal candidato repubblicano domenica scorsa a Butler in Pennsylvania. Anche i mercati finanziari, stando alle quotazioni stellari dei listini americani degli ultimi giorni, scommettono su un ritorno di Trump alla Casa Bianca.

«Non credo che i giochi siano ormai fatti. Saranno gli elettori statunitensi a decidere chi sarà il prossimo presidente», afferma Luca Paolazzi, economista e advisor di Ceresio Investors da noi contattato. Paolazzi è autore di una newsletter focalizzata proprio sulle presidenziali nordamericane con un titolo emblematico: «Questo o quello pari non sono: ricadute globali delle presidenziali negli USA» in cui si analizzano i programmi dei due candidati, il presidente democratico in carica Joe Biden e il suo avversario repubblicano Donald Trump. «A determinare l’esito delle elezioni saranno ancora una volta i temi economici e non solo l’emotività del momento», spiega Paolazzi. Ci sono anche due visioni del ruolo della presidenza. «Da una parte, quella repubblicana, si considera il presidente una sorta di amministratore delegato con poteri su economia e giustizia che vanno al di là del Congresso e della Corte Suprema. Un po’ come era agli esordi della storia degli Stati Uniti». «Dall’altra parte - continua l’economista di Ceresio Investors - c’è invece una visione più rispettosa della divisione dei poteri». Ma le differenze non si limitano a questi aspetti istituzionali. «L’amministrazione statunitense è un organismo quasi autoportante molto bipartisan. Trump fa però intendere che una volta al governo reintrodurrà lo spoils system jacksoniano, dal nome del 7. presidente democratico Andrew Jackson cui erroneamente è attribuita la sua introduzione. Secondo il candidato repubblicano invece l’amministrazione federale è una sorta di Spectre che lui chiama deep state, quasi fosse una forza occulta».

Promossi per l’occupazione

Ma dal punto di vista dei risultati economici, entrambi i candidati possono essere giudicati sia per come hanno governato (dal gennaio 2017 al gennaio 2021 Trump e dal gennaio 2021 a oggi Biden, ndr), sia sui programmi proposti per il prossimo mandato. «I risultati conseguiti sono buoni per entrambi, anche tenendo conto del periodo della pandemia da Covid che ha fatto diminuire il PIL fortemente», continua Paolazzi . A oggi, infatti, l’economia degli Stati Uniti, rispetto a quella dell’Eurozona e del Regno Unito è cresciuta molto di più. «Il PIL statunitense non solo è dell’8,7% sopra i livelli della pandemia, contro il 3,4% dell’Eurozona e l’1,7% della Gran Bretagna, ma anche recuperato i valori di trend, come se la recessione da lockdown nel 2020, l’interruzione delle catene del valore nel biennio 2020-2021, lo schock del rincaro delle materie prime e alimentari nel 2022 e il brusco rialzo dei tassi d’interesse non ci fossero mai stati. Al contrario, il Regno Unito ha uno scarto di oltre cinque punti percentuali rispetto a quei valori, e l’Eurozona di quasi quattro». La situazione macroeconomica (PIL e tasso di disoccupazione) è quindi migliore di quella percepita dalla popolazione in generale. Eppure la campagna di Trump dipinge un quadro più cupo di quello che è tanto che è stato coniato un termine per definire lo scollamento tra percezioni e realtà: vibecession, da vibes, vibrazioni e recession. Risponde Paolazzi: «Biden vince la partita dell’occupazione: +9,6 milioni di posti di lavoro nel settore non agricolo tra dicembre 2021 e dicembre 2024 (secondo stime), contro i +6,4 milioni tra dicembre 2016 e dicembre 2019». «Invece, la situazione attuale è sicuramente peggiore di quella sotto l’amministrazione Trump per quanto riguarda l’inflazione, che era a lungo rimasta ancorata al fatidico 2%, mentre oggi viaggia un punto percentuale e mezzo più in alto. La maggiore inflazione si è verificata a tutte le latitudini e con qualunque maggioranza politica, perché ha avuto origini comuni, e sebbene il suo rientro stia avvenendo in modo analogo ovunque, le famiglie americane sono molto preoccupate del più alto costo della vita rispetto a qualche anno fa e tendono a essere critiche con chi ha governato in questo periodo. Se poi aggiungiamo tassi d’interesse più alti, aumentati dalla Federal Reserve per contrastare l’inflazione, abbiamo un mix che potrebbe spingere gli elettori a manifestare scontento nelle urne a maggior ragione se si considera che il calo del potere di acquisto ha colpito di più le minoranze (afroamericani, ispanici e asiatici) più vicine ai democratici».

Bocciati in finanza pubblica

Dal punto di vista della finanza pubblica, entrambi i candidati peggiorerebbero il deficit del bilancio federale. «Con politiche di stimolo e redistributive Biden che aumenterebbe le imposte ai più benestanti; con sgravi fiscali e dazi all’importazione (del 60% su beni cinesi e del 10% su quelli di altri paesi) da parte di Trump il quale nel periodo in cui ha governato ha varato misure con maggior debito per 8.400 miliardi di dollari, contro i 4.300 di Biden».

Debito federale destinato a crescere

Nessuno dei due candidati ha intenzione di ridurre debito pubblico e deficit di bilancio. Biden vorrebbe aumentare al 39,6% l’aliquota d’imposta sul reddito delle persone fisiche (oltre i 400 mila dollari l’anno), tassare le eredità superiori al milione (al 39,6%) e alzare al 5% le imposte sui capital gain e al 2,1% quella per il Medicare. Maggiori entrate che dovrebbero finanziare l’accesso dei redditi più bassi alla proprietà immobiliare, gli studi universitari e progetti per l’energia pulita. Trump prevede di mantenere al 21% l’imposta sugli utili societari e rendere permanenti gli sgravi fiscali del 2017. Il rischio, in entrambi i casi, è quello di mantenere alte le tensioni inflazionistiche.

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