L'analisi

All’industria petrolifera mancano gli investimenti

Il settore, causa «cattiva fama», non attira più capitali freschi e questo sta condizionandola crescita economica - All’appello mancherebbero 12 mila miliardi di dollari per infrastrutture - Il greggio rimarrà vitale a lungo per i Paesi in via di sviluppo
L’Opec+ ha deciso di tagliare la produzione di greggio a fine 2022 per supportare un mercato in fase calante. © Reuters/Ahmed Jadallah
Gianluigi Trucco
09.06.2023 23:27

Tra i fattori che condizionano la crescita in prospettiva, uno dei meno considerati, per ragioni di mal intesa «correttezza politica» e di ostracismo ideologico, è rappresentato dagli scarsi investimenti nei settori energetici tradizionali. Ormai, sulla via delle proibizioni esplicite, in molti ambienti finanziari già sono presenti restrizioni o condizionamenti legati a criteri ESG sempre più rigorosi. Norme dei governi e restrizioni varie concorrono a determinare la tendenza.

È stato Haitham al-Ghais, Segretario generale dell’Opec, a mettere recentemente in guardia dallo «scoraggiare» investimenti nel settore petrolifero, che rimane ancora vitale per la crescita e lo sarà ancora a lungo. Una tale tendenza non solo accresce la volatilità ma costituisce un reale pericolo sul medio-lungo termine. «È una verità che va riconosciuta» ha affermato al-Ghais in occasione della Middle East Petroleum and Gas Conference svoltasi a Dubai nelle scorse settimane.

Gli specialisti dell’Opec stimano che siano necessari oltre 12 mila miliardi di dollari di investimenti per soddisfare la domanda in prospettiva. A un ritmo di crescita di 8 milioni di barili al giorno il mercato va incontro a una carenza di offerta, considerate le sanzioni occidentali alla Russia, che mantiene l’estrazione intorno ai 10-11 milioni di barili al giorno.

Da parte sua il ministro saudita dell’Energia, Abdulaziz bin-Salman ha ancora una volta messo in guardia i trader che effettuano «short-selling», cioè vendono allo scoperto posizioni sul petrolio in vista di una sua discesa, stigmatizzando il loro ruolo nell’alimentare speculazione e volatilità.

Ricordiamo come l’Opec e i suoi alleati, a iniziare dalla Russia stessa, che ha portato alla nascita della cosiddetta l’Opec+, abbiano deciso di tagliare la produzione a fine 2022 per supportare un mercato in fase calante, sostenendo il prezzo del greggio. Con una successiva mossa a sorpresa, ufficialmente motivata da scenari economici incerti e crisi bancarie in atto, lo scorso aprile l’Organizzazione ha annunciato un taglio ulteriore di 1,2 milioni di barili giornalieri. Infine, è stata l’Arabia Saudita ad annunciare alcuni giorni fa un taglio ulteriore di un milione di barili giornalieri a partire da luglio.

Inflazione, non è colpa del petrolio

Peraltro è la stessa IEA (l’Agenzia internazionale dell’energia) a indicare nel suo ultimo rapporto possibili squilibri nella seconda metà del 2023 e soprattutto nel 2024, con una domanda che potrebbe superare l’offerta di oltre due milioni di barili giornalieri. Volatilità crescente e prezzi in risalita non sono quindi da escludere.

Al-Ghais è anche intervenuto a Dubai sul tema dell’inflazione, affermando che dare la colpa al petrolio «è sbagliato e tecnicamente scorretto». La causa sta piuttosto nel blocco degli investimenti in favore di questa materia prima «destinata a portare prosperità ancora per i prossimi decenni, soprattutto nel mondo in via di sviluppo». Nonostante le difficoltà che le economie avanzate incontrano e la frenata dell’attività industriale, oltre agli elevati tassi d’interesse, a motivare le previsioni ottimistiche in campo petrolifero sono la crescita della domanda in altre aree mondiali e soprattutto in Cina, ove la maggiore mobilità ha portato a consumi record negli scorsi mesi di benzina e cherosene per aviazione.

Prezzo - come all’indomani del crollo del 2014 - e condizionamenti politico-culturali, sono da sempre i fattori determinanti nel determinare i flussi d’investimento; ora il secondo sta prendendo il sopravvento. Gli investimenti sono progressivamente diminuiti, nel corso degli ultimi anni, da parte di enti pubblici e investitori privati, mentre una correzione inferiore si è avuta da parte delle società petrolifere, che hanno diversificato le loro attività. Un ruolo non indifferente è venuto dall’aumento dei costi a causa dell’inflazione. Secondo uno studio dell’IEA quasi la metà degli investimenti di capitale effettuati nel settore petrolifero dal 2022 è stata fagocitata dai maggiori costi. Per l’Opec, invece, i miglioramenti tecnologici e la maggiore efficienza degli impianti compensano i maggiori costi per macchinari, attrezzature, servizi, attività di prospezione, perforazione ed estrazione. Il dato più significativo è comunque quello relativo all’effetto indiretto delle restrizioni sul petrolio: l’enorme crescita del carbone (+9% nel 2022 per la sola produzione di energia elettrica), dapprima prerogativa della Cina e dell’India e ora esteso ad altri Paesi, inclusi quelli europei leader nelle normative ESG.

Il prezzo del greggio stabile a livelli bassi

I dati pubblicati dall’American Petroleum Institute (API) relativi a una forte caduta delle scorte USA, la maggiore mobilità stagionale, il taglio ulteriore di produzione annunciato dall’Opec, e l’attesa di una pausa nel ciclo di aumenti di tassi della Fed, hanno stabilizzato il prezzo del greggio, che rimane comunque debole. Ieri in serata il Brent londinese quotava 76,30 dollari il barile, segnando circa -11% da inizio anno, e il WTI americano 71,50, con la stessa variazione. Rispetto a un anno fa il calo è invece di circa il 37% per il Brent e del 41% per il WTI.