Argor Heraeus, lavorare l’oro fra critiche e opportunità

La lavorazione di oro ed argento costituisce una «nicchia preziosa» di livello internazionale che ha il suo fulcro tradizionale nel Mendrisiotto, ma che attira critiche da parte di ambientalisti, politici ed accademici, come è emerso in occasione della 29. edizione di «Dentro l’industria», la serie di visite aziendali e dibattiti promossa dall’Associazione industrie ticinesi (AITI) e dal Dipartimento delle finanze e dell’economia (DFE). Presso la Argor Heraeus di Mendrisio, con la partecipazione di Christian Vitta, responsabile del DFE, Fabio Regazzi, presidente AITI, Marco Romano, granconsiglieri, amministratori e funzionari pubblici, sono stati discussi svariati temi nel rapporto, non sempre facile, fra industria industriale, politica e burocrazia.
Christoph Wild, CEO di Argor Heraeus, delineando la struttura della società parte del gruppo tedesco HPM, presente con quasi 15.000 collaboratori in 40 Paesi con attività diversificate, ha sottolineato il ruolo delle unità ticinesi, operanti dal 1951: dall’approvigionamento dei metalli grezzi alla raffinazione ed alle lavorazioni per gioielleria, orologeria, banche, chimica. Un mercato in crescita, con produttori quali Cina, Australia e Russia, ed altre fonti più «aperte», ma anche, ha sottolineato Wild, un mercato sempre più regolamentato e soggetto a severe procedure di compliance in termini di origine dei prodotti, filiera, sostenibilità. Wild ha ricordato come, in tale senso, Argor Heraeus abbia fatto molto: fra le prime a pubblicare un dettagliato rapporto di sostenibilità, ha operato sul fronte dell’efficienza energetica attraverso impianti fotovoltaici, ha ridotto le emissioni di CO2, l’uso di acqua e plastica, ha promosso il car pooling fra i collaboratori. Eppure, ha detto Wild, persone come Dick Marti, ex Consigliere agli Stati si chiedono «se il settore abbia ancora ragione di esistere» e per molti «le aziende sono viste come pericolose, inquinanti e senza scrupoli», ha aggiunto Wild. Una dialettica che si è sviluppata durante la tavola rotonda, in cui si è manifestato il solco profondo che esiste fra l’innovazione aziendale e quella del mondo politico e normativo, non sempre al passo con essa. Il valore delle aziende non sembra essere riconosciuto, mentre esse richiedono una fiscalità equa, una burocrazia non invasiva, flessibilità in linea con i picchi di domanda di lavorazioni. Il rischio sempre incombente è quello della delocalizzazione. Altro tema emerso è stato quello dell’accesso alla manodopera qualificata. Se un tempo la percentuale di collaboratori residenti era del 60-70%, oggi la proporzione si è invertita e prevalgono i frontalieri. La ragione sta nell’emersione di nuovi profili professionali che il mercato locale non offre, oltre alla poca disponibilità in termini di turni lavorativi ed alle scarse competenze linguistiche. Wild ha inoltre ricordato come la società non abbia aderito, per desiderio delle maestranze, ad un contratto collettivo, visto che le condizioni economiche di cui godono sono migliori di quelle da esso previste.