Cesare Romiti, addio al leader della linea dura antisindacale

È stato uno dei grandi protagonisti dell’industria italiana del Ventesimo secolo, simbolo di un capitalismo roccioso capace di scolpire relazioni industriali, ma anche economiche e politiche. Cesare Romiti, scomparso ieri a 97 anni, per un quarto di secolo ha guidato con personalità e determinazione il simbolo stesso del made in Italy, la Fiat in cui entrò nel 1974, negli anni della crisi petrolifera e del terrorismo, riuscendo sei anni dopo a sconfiggere i sindacati con la famosa «marcia dei quarantamila».
Nato a Roma il 24 giugno 1923 da una famiglia di umili origini, Romiti perde improvvisamente il padre nel 1941 ritrovandosi in una situazione finanziaria non facile. Riesce a laurearsi in Economia lavorando di giorno e studiando la sera. Dopo un primo impiego in banca, nel 1947 viene assunto al Gruppo Bombrini Parodi Delfino dove percorre tutta la scala gerarchica diventando direttore finanziario. Dopo la fusione della società con Snia Viscosa, nel 1968 viene nominato direttore generale, entrando sotto l’ala protettiva di Enrico Cuccia (che Romiti definirà «un personaggio affascinante, unico e apertissimo»). La sua forte personalità lo porta appena due anni dopo alla guida di Alitalia e nel 1973 all’Italstat.
Ma è nel 1974 che inizia la sua vera ascesa: su consiglio di Cuccia, Gianni Agnelli chiama Romiti in una Fiat stretta tra crisi petrolifera, terrorismo e instabilità politica. Nel 1976 «il manager di ferro» diventa amministratore delegato per la parte finanziaria in un non facile triumvirato con Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti, che però presto si dimette. Con l’Ingegnere fuori, il ruolo di Romiti diventa sempre più centrale: nel 1976 convince Gheddafi a iniettare capitali freschi in Fiat attraverso la finanziaria di Stato libica, riuscendo a far digerire l’operazione agli Stati Uniti. Negli anni successivi, quando la violenza terroristica dilaga negli stabilimenti, riesce a gestire l’azienda con fermezza e determinazione.
La marcia dei quarantamila, nell’autunno del 1980, segna la definitiva apoteosi di Romiti non solo in Fiat, ma anche nell’economia e nella società italiana. Dopo una settimana di durissime trattative con i sindacati, in un’azienda ormai quasi fuori controllo per scioperi e violenze Romiti annuncia 15.000 licenziamenti. Si va allo scontro frontale ma, dopo un blocco di 35 giorni dello stabilimento di Mirafiori, il 14 ottobre 40.000 quadri e impiegati Fiat sfilano a Torino: chiedono di tornare a lavorare, protestando contro i picchetti che impediscono di entrare in fabbrica. È un giorno storico per la Fiat ma anche per l’Italia, che scopre l’esistenza della sua «maggioranza silenziosa». I sindacati cedono: firmano un accordo per la cassintegrazione a zero ore di 22.000 dipendenti, piegandosi al manager romano, anima segreta della marcia dei colletti bianchi.
Da allora Romiti diventa il Cesare di Corso Marconi, il vero erede di Valletta: conquista la fiducia assoluta di Gianni Agnelli e, come lui stesso ammette, «carta bianca». Gli anni Ottanta rappresentano un periodo d’oro per Fiat, con una redditività da incorniciare che culmina con l’acquisto dell’Alfa Romeo dall’Iri guidata da Romano Prodi. Romiti vince le lotte di potere interne con Vittorio Ghidella, il padre della Fiat Uno allontanato da Corso Marconi con una maxi-liquidazione e riesce a tenere a bada Umberto Agnelli grazie al determinante appoggio della Mediobanca di Cuccia.
Caduto il Muro di Berlino, gli anni Novanta si aprono con il progetto sfumato di una fusione con Chrysler e continuano con Romiti proiettato su una strategia di diversificazione degli investimenti di Corso Marconi, dalle assicurazioni all’editoria fino alle costruzioni. Passato relativamente indenne da Tangentopoli, nel 1996 ottiene da Gianni Agnelli la presidenza di Fiat pur non facendo parte della famiglia, secondo nella storia dopo Valletta. Nel 1998, all’età di 75 anni, dà l’addio a Corso Marconi con una leggendaria buonuscita che supera l’equivalente di 150 milioni di euro di oggi. Ma Romiti non si ferma: diventa il numero uno della finanziaria Gemina, che controlla la Rcs del Corriere della Sera e la società di costruzioni Impregilo. Mentre in una Fiat di nuovo in affanno arriva dalla Svizzera il terzo grande fuoriclasse dopo Valletta e Romiti: Sergio Marchionne.