Previsione

Con Trump alla Casa Bianca crescita doppia del debito USA

Uno studio riportato dal «Financial Times» fa il confronto fra i programmi dell’ex presidente e di Kamala Harris
Roberto Giannetti
07.10.2024 23:00

Donald Trump, se eletto, provocherebbe un aumento del debito federale americano pari al doppio di quanto farebbe Kamala Harris. È quanto emerge da una nuova analisi condotta dal Committee for a Responsible Federal Budget, un gruppo apartitico di Washington, riportato ieri dal «Financial Times» (FT).

Secondo lo studio, fino al 2035, si prevede che il debito federale aumenterà di 7.500 miliardi di dollari se l’ex presidente conquisterà la Casa Bianca e manterrà la sua promessa di abbassare le tasse per individui e imprese, applicare tariffe pesanti sulle merci importate ed espellere milioni di immigrati, tra le altre proposte.

Per contro si stima che la piattaforma dell’attuale vicepresidente Harris, che prevede crediti d’imposta ampliati per le piccole imprese, un migliore accesso all’assistenza all’infanzia e agli alloggi a prezzi accessibili ma imposte aziendali più elevate, dovrebbe far aumentare il debito di 3.500 miliardi di dollari nello stesso periodo.

Attualmente il debito nazionale USA - al netto di quello dei singoli Stati - ammonta al 99% del PIL e secondo il Congressional Budget Office è destinato ad aumentare fino al 125% tra dieci anni se non ci saranno modifiche alle leggi attuali.

Rischio di crisi fiscale

Il rapporto, che arriva a sole cinque settimane dalle elezioni presidenziali americane, mette in guardia dall’aumento del rischio di «un’eventuale crisi fiscale».

Come considerare questi dati? Ne abbiamo parlato con Maurizio Novelli, Vice President di Lemanik Invest a Lugano. Innanzitutto i mercati hanno una preferenza fra Donald Trump o Kamala Harris? «Wall Street - risponde - preferisce Trump. Ossia il suo programma “deregulation” rispetto alla “regulation” e preferisce mantenere il “paradiso fiscale” che contorna la Corporate America, dove le grandi aziende beneficiano di imposizioni fiscali nell’ordine di un range 2%-15% massimo. Trump garantirebbe tutto questo e garantirebbe anche basse imposte per private equity, capital gain e buyback. Il tutto porterebbe anche a una traiettoria di debito pubblico probabilmente molto più elevata di quanto visto sotto l’amministrazione Biden. Inizialmente, una vittoria di Trump, sarebbe favorevole alla Borsa ma sfavorevole ai bond e al dollaro. Nell’arco di qualche mese è probabile che l'instabilità sulla finanza pubblica USA si trasferirebbe anche alla Borsa, esattamente come nel 1971 e nel 1987».

Ma a livello fiscale ci sono molte differenze fra i due? Lei concorda con le cifre dello studio citato dal FT? «Le cifre citate dal Financial Times - nota Novelli - sono esattamente le cifre previste dal Budget Office degli Stati Uniti, quindi sono coerenti con l’attuale dinamica in corso. È comunque evidente che nessuno dei due candidati ha una strategia di riduzione della spesa, che è destinata comunque a salire in modo inesorabile».

Un fardello pesante

A questo punto bisogna chiedersi: qual è la situazione debitoria degli Stati Uniti? A quanto ammonta il debito pubblico e lei come lo vede salire? «Attualmente - rileva - siamo al 100% del PIL e, mantenendo gli attuali impegni di spesa già in essere, senza variazioni, ogni anno salirebbe del 7,5%-8%. Tuttavia occorre sottolineare che il calcolo del debito USA non è uguale a quello che usiamo in Europa o in Giappone. Gli Stati Uniti non includono i singoli Stati federali che hanno altri 25/30 punti di PIL di debito. Il debito pubblico calcolato come in Europa sarebbe già ora al circa il 130% del PIL. Credo che le attuali previsioni di tendenza siano alquanto conservative, dato che non prevedono alcuna recessione nei prossimi dieci anni e nessun problema futuro. Si tenga conto che, pur in un contesto non recessivo, il deficit pubblico sale dell’8% l’anno e attualmente costituisce il principale motore della crescita americana. In sostanza senza spesa pubblica l’America sarebbe nella stessa situazione di Europa e Giappone, praticamente a crescita zero».

A suo avviso per gli Stati Uniti ci sono dei rischi di crisi debitoria pubblica nei prossimi dieci anni? Per esempio i casi di shutdown dell’amministrazione federale saranno sempre più frequenti? «Credo - nota - che le elezioni non procureranno un vero vincitore, nel senso che la polarizzazione attuale rende difficile ottenere una maggioranza tale da avere le due camere dello stesso colore. Questo riproporrà la situazione avuta negli ultimi 4 anni, dove il debito sale senza però poter implementare una strategia fiscale per contenerlo».

«Infatti le negoziazioni sul debt ceiling (il tetto al debito) saranno la norma. Si tenga conto che attualmente il 25% della popolazione americana vive grazie a sussidi e quindi diventa alquanto difficile togliere tali sussidi senza procurare una recessione. Questo è il motivo per il quale la spesa pubblica sale anche senza una apparente difficoltà dell’economia. In realtà l’economia è in costante bail out (salvataggio, ndr) grazie proprio a tale intervento pubblico. Guardando alla storia, le scelte di politica economica non sono mai state favorevoli a politiche fiscali restrittive, quindi mi aspetto debito fuori controllo, ritorno dell’inflazione come strategia per svalutare il debito e crisi del dollaro».

Insolvenze elevate

E a livello di debiti privati qual è la situazione? «Qui la situazione - sottolinea Maurizio Novelli - è molto più problematica. Abbiamo debito speculativo in circolazione pari al 45% del PIL, rispetto al 30% del 2007. Attualmente abbiamo tassi di insolvenza a livelli da recessione nel segmento del credito al consumo, del commercial real estate e nello shadow banking system. I Chapter Eleven (fallimenti registrati nei tribunali) sono già ai livelli pre-crisi di fine 2007. Infatti, alcune banche sono in difficoltà e altre sono fallite a causa di tali insolvenze». «Il problema - conclude - è che non si vede come tali insolvenze possano calare, dato che tutto questo avviene in un contesto di crescita e in piena occupazione. È evidente che qualcosa non funziona nella crescita economica evidenziata dall’economia. Questa crescita è reale? O è frutto solo di dati macroeconomici sempre meno affidabili e soggetti a continue e significative revisioni?».