L'analisi

Fra geopolitica e Grande Sud il dollaro è sotto pressione

Anche gli storici alleati degli Stati Uniti nel Golfo Persico sono preoccupati dalle sanzioni internazionali e dai sequestri – La proposta del G7 di confiscare i patrimoni russi non entusiasma i ricchi investitori della regione che temono per i loro averi
Le monarchie petrolifere mandano messaggi all’Occidente. © EPA/Ali Haider
Gian Luigi Trucco
25.07.2024 23:59

Una fake news che circola in rete riguarda un presunto accordo ufficiale fra Arabia Saudita e Stati Uniti che obbligherebbe Riyadh a negoziare il proprio petrolio esclusivamente in dollari e a usare il ricavato per l’acquisto di Treasury Bond. In realtà non vi è alcun accordo formale di questo tipo, anche se i petrodollari hanno rappresentato e continuano a rappresentare una importante componente dei flussi valutari globali.

Tutto ebbe inizio nel 1974, tempo di alta inflazione, deficit USA elevato e pressione sul dollaro, tanto da portare alla fine della sua convertibilità in oro. A ciò si aggiunse in autunno lo shock petrolifero, allorché l’OPEC tagliò la produzione e decise l’embargo verso gli USA durante la guerra di Yom Kippur. L’Amministrazione Nixon convinse l’Arabia Saudita, aggiornando una vecchia intesa del 1945, a sostenere il debito USA ricevendo protezione e forniture militari a condizioni di favore. Il dollaro ne uscì momentaneamente rafforzato anche se la sua svalutazione è poi continuata rapidamente con l’incremento esponenziale della massa monetaria e l’aumento del debito.

Ora le cose sono cambiate. I Paesi del gruppo BRICS, inclusi quelli del Golfo e del Medio Oriente, nonché dell’Asia, hanno da tempo adottato le valute locali per il loro trading e per i pagamenti cross-border, anche per il petrolio, alimentando il dibattito sulla perdita d’importanza della valuta USA e sulle possibili conseguenze per la residua influenza americana.

La quota USA di PIL mondiale è passata dal 40% del 1960 a meno del 25%, il volume delle riserve globali in dollari dal 71% del 1999 al 58% attuale, lo stato dei conti pubblici è perfino peggiore di quanto fosse nel 1974, il disagio e il divario sociale crescono, l’economia cinese sta già superando quella americana se non altro in termini di potere d’acquisto, nel mondo multipolare il Grande Sud diviene sempre più rilevante, più autonomo anche in termini di scelte finanziarie e perfino certi ex-alleati guardano a Washington con diffidenza. A orientare molti Paesi verso sistemi finanziari e di pagamento alternativi a quelli controllati dagli USA è stato il timore e la vulnerabilità nei confronti dell’uso disinvolto delle sanzioni finanziarie ed economiche. Anche l’Arabia Saudita, unitamente agli Emirati, all’Iran ed all’Egitto, si è unita al club dei BRICS, divenendo partner della Cina nel progetto mBridge volto a usare anche le valute digitali delle rispettive banche centrali nei pagamenti cross-border. Riyadh sta inoltre progressivamente riducendo la sua posizione in Treasury Bond e ne ha venduto circa il 4% nell’ultimo anno.

Arabia Saudita preoccupata

Al momento il processo di diversificazione valutaria ha portata limitata, ma rappresenta una tappa sulla via della de-dollarizzazione, con la creazione di linee di swap e nuovi sistemi di compensazione.

Sono stati molti gli elementi che hanno indotto gli ambienti politici e finanziari a guardare alla dipendenza dal dollaro USA con maggiore diffidenza: concorrenza fra grandi potenze, a iniziare dal nuovo ruolo di Cina e Russia, debito e deficit crescenti, politica estera, weaponization della valuta stessa, cioè pressione politica e strategica espressa attraverso l’imposizione di sanzioni primarie e secondarie sulla base di considerazioni ritenute spesso arbitrarie. Così Cina e India sono state i maggiori pionieri dell’utilizzo delle loro valute anche nelle transazioni petrolifere con Arabia Saudita, Emirati, Russia e Iran.

Ora, dal Golfo giunge un altro segnale preoccupato: gli sforzi messi in campo da Stati Uniti e Unione europea, cui anche la Svizzera si associa, nel sequestrare i patrimoni russi, preoccupa i ricchi investitori della regione, che temono per i loro averi. Il concetto di sacralità della proprietà privata vacilla, i sistemi legali internazionali destinati a proteggerla si dileguano fra sanzioni e confische, inducendo molti a riconsiderare i modi atti a difendere le loro proprietà ed i loro interessi.

Le preoccupazioni serpeggiano e l’Arabia Saudita ha indicato la possibilità di vendere parte del debito europeo che detiene qualora le nazioni del G7 avviassero piani per la confisca dei 300 miliardi di averi russi al momento congelati. Da maggio a giugno i tecnici del G7 hanno analizzato le diverse vie praticabili contro gli averi della Banca centrale russa, concludendo per ora di utilizzare solo gli interessi, lasciando intatto il capitale, viste le possibili conseguenze di natura legale ed economica. USA e Regno Unito premevano invece per una confisca completa.

La mossa di Riyadh, che ha avuto poca eco, è stata invece considerata dal mercato finanziario per i suoi possibili effetti destabilizzanti e per il suo significato geopolitico, teso a indicare l’intenzione di usare il potere economico quale strumento di influenza politica. Il peso finanziario del Regno saudita sui mercati è notevole: il solo fondo sovrano, Public Invest Fund (PIF), gestisce circa mille miliardi di dollari ed è una componente principale dell’ambizioso programma Vision 2030. Inoltre la Saudi Arabian Monetary Authority (Sama) detiene riserve estere per circa 425 miliardi di dollari. Le preoccupazioni saudite riguardano i circa 600 miliardi di dollari di patrimonio «istituzionale» in Occidente, mentre si fanno sempre più forti le pressioni di Washington e di Bruxelles per il mancato isolamento di Mosca da parte del Regno.

Il sequestro degli averi russi è visto, dall’Arabia Saudita e da altri, come un pericoloso precedente, che mina la fiducia nel detenere patrimoni nelle banche e istituzioni straniere e può portare a imponenti prelievi. Sono in gioco i principi del diritto internazionale in materia di protezione e inviolabilità della proprietà e anche le nostre banche possono essere toccate dal fenomeno. Sulla stessa linea saudita si sono pronunciate le autorità degli Emirati, del Qatar, del Kuwait e di altri Stati della regione.