Previsioni 2019

Gli Emergenti dividono

Secondo gli analisti si prepara una ripresa, ma il Dragone resta un osservato speciale - Tra le variabili determinanti nel 2019 il dollaro, le guerre commerciali e le materie prime
Enrico Marro
12.01.2019 13:45

«Alto rischio, alto rendimento». Su una sola cosa gli analisti finanziari sono d’accordo: nel 2019 chi pensa di puntare sulle Borse dei Paesi emergenti fa una scommessa rischiosa ma potenzialmente molto redditizia. Poi però gli esperti si dividono: per alcuni di loro è meglio tenersi ancora alla larga dagli Emergenti, nel 2018 duramente colpiti dalla forza del dollaro (valuta con la quale avevano contratto enormi debiti), mentre altri sono convinti che nel lungo periodo daranno più soddisfazioni delle Borse dei Paesi sviluppati. Chi ha ragione?

Il destino degli Emergenti (che rappresentano il 40% del PIL globale ma solo il 12% della capitalizzazione borsistica mondiale) è legato a tre fattori: i tassi d’interesse statunitensi - quindi la forza del dollaro - , le dispute commerciali tra Washington e Pechino, e il prezzo delle materie prime, con alcuni emergenti grandi produttori (per esempio Russia e Sudafrica) e molti altri importatori. Lo scenario è incerto, la volatilità continuerà a dominare i listini di questi Paesi, ma ci sono anche motivi di ottimismo.

Lo scenario di base di Credit Suisse per il 2019, per esempio, vede le Borse degli Emergenti riprendersi dalla debolezza dell’anno scorso. «Nel 2018, per effetto della politica più restrittiva della Fed, i costi della liquidità in dollari sono cresciuti, con conseguenti tensioni e gravi battute d’arresto per alcune valute dei mercati Emergenti, si legge nel report. Alla fine del 2018 però sono comparsi segnali di un riequilibrio a livello interno ed esterno, anche grazie al sostegno del FMI. Se ciò proseguirà nel 2019, i mercati emergenti potrebbero riprendersi, anche se tensioni potrebbero manifestarsi sui quelli finanziariamente più fragili», come Argentina, Turchia e Sudafrica, mentre un deficit con l’estero meno marcato dovrebbe rendere più coriacei Paesi come Brasile, Messico e Indonesia.

«L’anno scorso le preoccupazioni sul rialzo dei tassi d’interesse, il rallentamento della crescita cinese e le dispute commerciali USA-Cina hanno provocato vendite sui mercati emergenti – fa eco UBS nel suo outlook ‘Year Ahead 2019’ - quest’anno la volatilità continuerà ma ci sono anche opportunità», in particolare per i titoli «value» ma anche per le azioni «old economy» in Sud Corea, Vietnam e Cina (dove le valutazioni iniziano a essere attraenti).

In generale, come sottolinea il CEO di Research Affiliates Robert Arnott, se si considera il rapporto prezzo-utili corretto per il ciclo, l’azionario emergente si trova a quota 12,5 contro il 31,1 dell’indice S&P500 statunitense, «quindi è di ben il 60% più economico di Wall Street». Inoltre depongono a favore di una ripresa degli Emergenti il crollo del prezzo del greggio (almeno per i Paesi che importano materie prime) e la convinzione di molti analisti - tra cui quelli di Goldman Sachs e di UBS - che il dollaro abbia già toccato i suoi massimi e sia destinato a scendere, togliendo pressione a chi ha debiti contratti nella valuta statunitense.

Secondo Research Affiliates, a correre i maggiori rischi sono i Paesi che mostrano una tripla debolezza: robusti indebitamenti in dollari, scarsità di riserve valutarie e deficit commerciale. È il caso di Argentina, Turchia e Indonesia, ma anche la situazione di Brasile e Sudafrica non è tranquillizzante. Un caso a parte resa quello della Cina, l’elefante nella cristalleria degli Emergenti, che pesa per quasi un terzo dell’indice MSCI EM. Quella di Shanghai si è rivelata la peggior piazza finanziaria del 2018, con l’indice CSI300 che ha perso il 25% (solo Atene ha fatto peggio con -27%). A pesare sono state le difficoltà del sistema bancario ombra cinese, la guerra commerciale con gli Stati Uniti e la frenata dell’economia: secondo la Banca Mondiale, il colosso asiatico quest’anno è destinato a crescere solo del 6,2% anziché il 6,5% previsto dal Governo, contro il 6,9% del 2017. Dopo aver perso in otto mesi il 10% del suo valore contro il dollaro, nelle ultime settimane per fortuna lo yuan si è stabilizzato grazie al fragile armistizio nella guerra commerciale tra Washington-Pechino e alla prudenza della Fed sulla stretta monetaria. Ma il raggiungimento della soglia psicologica di sette yuan per dollaro resta molto vicino. Sul fronte cinese peraltro gli analisti di Schroders non sono pessimisti: «le valutazioni ora sono attraenti - spiega Tom Wilson, responsabile dell’azionario mercati emergenti - la possibilità di un’escalation della guerra commerciale è già prezzata, il dollaro potrebbe indebolirsi considerevolmente nel 2019 e gli stimoli di Pechino all’economia dovrebbero mitigare le preoccupazioni». Non dimentichiamo però che gli Stati Uniti sono nella fase matura del loro ciclo espansivo e che il rallentamento cinese è destinato a proseguire, chiosa Wilson, quindi la situazione resta fluida e i prezzi volatili.