Finanza

Gli investitori svizzeri puntano su sostenibilità e più «impatto»

Il calo dei mercati dello scorso anno non ha risparmiato il comparto dei fondi legati ai criteri ESG - Ma i volumi dei capitali collocati nell’impact investing sono in netto aumento nonostante la difficoltà di accesso a questa asset class
La microfinanza nei Paesi emergenti è un tema d’investimento molto popolare. © EPA/Aaron Ufumeli
Dimitri Loringett
28.06.2023 06:00

Come noto, l’anno scorso i mercati finanziari hanno perso in media attorno al 20%, un andamento che ha riguardato anche gli investimenti sostenibili, intesi come quelli attenti ai cosiddetti criteri ESG. Stando allo studio di mercato presentato ieri a Zurigo dall’associazione Swiss Sustainable Finance (SSF), infatti, il volume degli investimenti legati alla sostenibilità è diminuito (per la prima volta) del 19% a 1.610 miliardi di franchi.

«Il fatto che i volumi siano diminuiti “solo” della stessa percentuale della performance negativa del mercato indica che molto probabilmente non ci sono stati deflussi importanti e che, anzi, gli afflussi di capitali potrebbero aver compensato parte della performance negativa», spiega Sabine Döbeli, CEO di SSF, in una nota stampa. Secondo i dati forniti dall’associazione con sede a Zurigo, circa il 50% del volume complessivo dei fondi d’investimento svizzeri è rappresentato da asset legati alla sostenibilità.

Gli investitori esigono l’impatto

In generale, per «asset legati alla sostenibilità» si intendono investimenti in società o attività che aderiscono ai criteri di tutela ambientale, sostenibilità (nelle sue variegate declinazioni) e governance (ESG). Ma sempre di più questo «marchio» non soddisfa gli investitori seriamente votati a perseguire tali obiettivi. Ancora Döbeli: «Alcuni operatori sono diventati più severi su ciò che ritengono siano asset legati alla sostenibilità». Infatti, dallo studio di SSF emerge che due degli otto diversi approcci a questo genere di investimenti hanno registrato degli incrementi di volume di oltre l’80%: gli investimenti tematici e quelli a impatto.

«Il problema di fondo degli investimenti ESG è che il più delle volte si limitano a guardare gli “input” - ovvero i processi produttivi di beni e servizi - anziché gli “output” - cioè i prodotti finali e il loro impatto sulla società, sull’ambiente ecc.», spiega al CdT Patrick Elmer, CEO e fondatore di iGravity, operatore finanziario svizzero specializzato nel segmento del cosiddetto «impact investing», ovvero gli investimenti effettuati con l'intento di generare un «impatto» sociale e ambientale positivo e misurabile insieme a un rendimento finanziario.

Convinzioni errate da sfatare

Una critica comune degli investimenti a impatto è che i relativi prodotti «rendono» meno rispetto a quelli tradizionali. «Il mercato ha ancora delle convinzioni errate riguardo a questi investimenti, non è sempre vero che rendono meno», afferma Elmer. «Gli investimenti a impatto con rendimenti simili o uguali a quelli tradizionali sono comunque possibili ed esistono, secondo vari studi. È tuttavia vero anche il contrario: se si decide di voler investire in un settore molto specifico, per esempio nel campo dell’istruzione in un Paese in via di sviluppo, è chiaro che non ci si può aspettare rendimenti importanti. Tuttavia, se l’investitore ha delle vedute aperte e guarda, per esempio, ai fondi di private equity (o private debt) che investono nei mercati emergenti, può trovare rendimenti comparabili ai valori di riferimento standard. Aggiungerei che molti investimenti a impatto sono de-correlati dai mercati finanziari e hanno bassa volatilità, offrendo quindi dei benefici in termini di diversificazione nei portafogli d’investimento che vanno al di là del mero rendimento».

Un mercato ancora d’élite

Riguardo l’accesso all’impact investing c’è la via dell’investimento diretto nelle aziende, tramite strutture di private equity/debt, oppure indirettamente, attraverso dei fondi d’investimento che offrono una maggiore diversificazione. Ma l’accesso a questi resta ancora difficoltoso, come ci spiega il CEO di iGravity. «Spesso le società in cui si potrebbe investire sono di media grandezza, si trovano nei Paesi emergenti, non sono quotate in Borsa e sono accessibili solo tramite il private equity/debt. Inoltre, sebbene sia in forte crescita, l’universo investibile è ancora relativamente limitato e i prodotti d’investimento interessanti in alcuni casi non hanno sempre le dimensione necessarie come i fondi tradizionali. Le banche, per esempio, quando selezionano i prodotti d’investimento a impatto guardano tipicamente i volumi e l’andamento su un periodo di almeno cinque anni, ciò che diversi fondi o prodotti a impatto non hanno perché sono spesso di recente creazione e dimensioni modeste. Inoltre, a differenza dei fondi tradizionali, quelli a impatto tipicamente non offrono una liquidità giornaliera, che il mondo bancario e finanziario invece richiede. Un circolo vizioso, insomma. Quindi, il mondo dell’impact investing è ancora relativamente “elitario”, appannaggio ovvero di investitori qualificati e professionali, come gli istituzionali e le casse pensioni».

Uno dei temi d’investimento più popolari nel mondo dell’impact investing è quello della microfinanza. «Ci sono dei fondi d’investimento focalizzati su questo tema che hanno 1-2 miliardi di dollari in gestione e track record di oltre 15 anni in cui non pochi istituzionali investono con importi significativi, così come molti investitori privati», dice Elmer. «Ma è anche vero che la gamma di prodotti accessibili al grande pubblico è ancora limitata. Inoltre, spesso le autorità di supervisione (come la Finma in Svizzera, ndr) non consentono ai privati di investirci in questo genere di prodotti perché ritenuti troppo rischiosi, per via della limitata liquidità o del fatto che investono spesso in Paesi emergenti». Eppure, aggiungiamo, la Finma non avrebbe impedito agli operatori di vendere i famigerati bond AT1 di Credit Suisse anche ai piccoli risparmiatori...