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I flop di sovranismo e populismo nelle posizioni in campo economico

Le linee che hanno negato i vantaggi derivanti dallo sviluppo degli scambi globali sono state smentite dai fatti e dai dati – Carente anche il discorso sulle maggiori diseguaglianze, perché quelle tra Sviluppati ed Emergenti a livello mondiale sono diminuite
Lino Terlizzi
Lino Terlizzi
10.04.2022 20:27

Sovranismo e populismo distorcono alcuni concetti di base a cui i loro sostenitori dicono di ispirarsi. Il sovranismo prende il concetto di sovranità di un Paese, in sé legittimo, ma lo trasforma in nazionalismo, in chiusura politica ed economica. Il populismo assume il concetto di popolo, in sé legittimo, ma lo estende sino a renderlo indifferenziato; identifica poi gli interessi di questa entità generica con le proprie posizioni e indica quest’ultime, arbitrariamente, come le uniche in grado di rappresentare il popolo stesso. Il sovranismo è a destra nello schieramento politico, ma su singoli temi attrae talvolta anche frange di sinistra. Il populismo è presente soprattutto a sinistra, ma pesca a volte anche a destra. Alcune esperienze, tra cui quelle di ex Governi in Italia (Lega sovranista con 5 Stelle populisti) e in Grecia (Syriza populista con Anel sovranista) hanno mostrato come i due filoni in più di un caso possano intrecciarsi.

Il percorso del PIL

L’avversione alla globalizzazione economica è uno dei terreni su cui l’intreccio tra sovranismo e populismo già si è verificato. È interessante peraltro notare come le linee sovraniste e populiste in economia abbiano registrato grandi flop. Dati e fatti hanno smentito analisi e previsioni dei due filoni. Inoltre, quando hanno formato insieme Governi, sovranisti e populisti o non sono riusciti ad andare avanti (vedi Italia) o hanno dovuto mutare la linea economica (vedi Grecia, riallineata all’UE). In un modo o nell’altro, per essere al Governo questi schieramenti devono cambiare linea, oppure allearsi con forze politiche tradizionali di centrodestra o di centrosinistra (vedi ancora Italia e vedi anche Podemos populista con il Partito socialista in Spagna), forze che hanno linee ben diverse dalle loro.

Uno dei punti centrali di molte posizioni sovraniste e populiste era ed è che la globalizzazione avrebbe portato ad una serie di crisi e ad un’erosione della crescita economica (del Prodotto interno lordo, PIL). I dati però dicono altro. Le cifre del Fondo monetario internazionale (FMI), mostrano come negli ultimi 20 anni, dal 2002 al 2021 compresi, per l’economia mondiale ce ne siano stati solo 2 con il segno negativo: il 2009 (-1,3%) e il 2020 pandemico (-3,1%). Per 18 volte c’è stato il segno positivo, con crescite annuali da un minimo di circa il 2% a un massimo del 5,9% (nel 2021). C’è anche da notare che tra il 2017 e il 2019 l’ex presidente USA Donald Trump (sostenitore di sovranismi e populismi) ha concretizzato una guerra dei dazi che ha contribuito a frenare gli scambi globali; senza questa fiammata di protezionismo la crescita economica, rimasta comunque buona, avrebbe avuto con ogni probabilità ancor migliori possibilità.

Distanze minori

Un altro punto centrale per sovranisti e populisti era ed è la tesi dell’aumento delle diseguaglianze portato dalla globalizzazione. Una tesi sostenuta talvolta anche da altri schieramenti, ma che sovranisti e populisti utilizzano direttamente per alimentare le posizioni favorevoli al protezionismo e contrarie allo sviluppo del libero scambio. Anche qui, i dati dicono altro. Secondo l’economista britannico Jim O’Neill, creatore della sigla BRIC (Brasile, Russia, India, Cina), questi quattro grandi Paesi emergenti rappresentavano nel 2000 circa l’8% del PIL mondiale nominale; i dati FMI indicano che questi Paesi nel 2021 hanno rappresentato il 24% del PIL globale. In un ventennio la quota si è moltiplicata per tre, con un ruolo di traino principale da parte della Cina, seguita dall’India e, più a distanza, da Brasile e Russia. C’è stata dunque una grande riduzione delle diseguaglianze a livello globale, tra Paesi sviluppati ed emergenti (i BRIC, ma anche altri). Un’obiezione classica a questi dati è che però sono salite le diseguaglianze all’interno dei singoli Paesi. Ma questa affermazione è una generalizzazione indebita: in una parte dei Paesi sono salite, in un’altra parte no. Non sono quindi tanto gli scambi globali ad essere in discussione, bensì soprattutto gli assetti economici e politici nazionali, dunque l’azione dei singoli Governi.

Guerra e sanzioni

C’è ancora da fare nel mondo, ma alcuni passi avanti si sono registrati, negarlo è un errore. L’argomento è ampio, ma vale la pena di ricordare anche, con riferimento alla guerra in corso in Ucraina, che le sanzioni contro la Russia autrice dell’aggressione oggi possono avere un peso proprio perché gli scambi globali nei passati decenni sono cresciuti. Se la gran parte dei Paesi fosse rimasta chiusa in angusti nazionalismi economici, da un lato ci sarebbe stato meno benessere per tutti e dall’altro non ci sarebbe ora la possibilità di agire ampiamente contro le aggressioni anche attraverso il terreno economico.

Indebitamento e ruolo dello Stato

Su debito pubblico e ruolo dello Stato in economia ci sono state e ci sono molte posizioni sovraniste e populiste in contrasto con la realtà di dati e fatti. La pandemia iniziata nel 2020 ha portato ad un ulteriore aumento dei debiti pubblici, ma già prima in molti Paesi i livelli di indebitamento erano eccessivi. Molte formazioni sovraniste e populiste però già all’epoca indicavano che la questione della riduzione dei debiti pubblici troppo elevati non era prioritaria, per una parte di queste formazioni anzi la questione non andava proprio posta. Il Giappone era (ed è) tra gli esempi che venivano portati a supporto di queste posizioni.

Il Giappone in tre decenni ha più che triplicato il rapporto debito pubblico/PIL, passando da circa il 70% al 235% di fine 2019 (dati FMI), quindi era (ed è ancora, ora è attorno al 250%) il Paese sviluppato più indebitato. Per molti sovranisti e populisti, però, era (ed è) un modello. Il Giappone infatti stampa quanta moneta vuole senza render conto a nessuno se non a sé stesso, anche sotto forma di titoli pubblici che vanno poi a ingrossare il debito pubblico. Debito che è largamente nelle mani di investitori pubblici e privati nipponici. Una partita di giro interna, insomma.

Tutto bene, quindi? Non proprio. La media annua di crescita economica in Giappone tra il 2003 e il 2012 è stata solo dello 0,7%, contro una media complessiva delle economie avanzate pari all’1,7%; tra il 2013 e il 2021, poi, la crescita nipponica è stata sotto la media delle economie avanzate per ben otto volte su nove.

Le mosse

Aumentare il debito evidentemente non ha portato al Giappone una crescita economica più robusta. Il fatto poi che il debito pubblico sia in gran parte nelle mani dei giapponesi stessi è una magra consolazione. Bisognerebbe infatti considerare che se tutti quei soldi fossero andati negli anni non al debito pubblico ma ad altri investimenti più produttivi per la crescita, ebbene i risultati per l’economia sarebbero stati con ogni probabilità ben migliori. Lo stesso ragionamento si deve d’altronde fare per tutti i Paesi eccessivamente indebitati.

Tra i Paesi sviluppati a più alto debito pubblico c’è l’Italia, che a fine 2018 aveva un indebitamento già al 134% del PIL (ora è attorno al 150%). L’allora Governo Lega-5 Stelle (giugno 2018-agosto 2019) è entrato in contrasto con vari rami dell’Unione europea, rivendicando la possibilità di scostarsi dai parametri del deficit pubblico e di allargare ulteriormente la spesa pubblica. Va ricordato che tra i provvedimenti più discussi varati da quel Governo populista-sovranista ci furono il reddito di cittadinanza (voluto dai 5 Stelle) e quota 100 (voluta dalla Lega, di fatto nuovi prepensionamenti). Oggi però le due formazioni non parlano contro l’euro e l’UE e fanno parte, assieme ai partiti tradizionali, del Governo Draghi, che ha tra i suoi impegni principali l’attuazione del Recovery Plan, reso possibile da aiuti e finanziamenti proprio della a suo tempo tanto criticata UE.

Lo schema di Mosca

Molte posizioni sovraniste e populiste restano comunque favorevoli non solo a una spesa pubblica allargata, ma anche a un ruolo ampio dello Stato nel tessuto dell’economia nazionale. Che si tratti di salvataggi di imprese che poi anziché esser rivendute rimangono in mano pubblica, o che si tratti di imprese che per una ragione o per l’altra vengono definite come strategiche e che quindi «devono» essere controllate da enti pubblici, molte formazioni sovraniste e populiste tendono comunque verso una presenza forte dello Stato in economia. Resta da capire meglio in quali casi si tratti di visioni economiche proprie e in quali casi vi sia eventualmente un legame con la visione della Russia di Putin, Paese che sino a tempi recenti era ben visto da molti sovranisti e populisti e che di suo mantiene appunto un’ampia presenza dello Stato in economia. Secondo molti esperti di cose russe, proprio questa presenza statale troppo ampia rappresenta uno delle ragioni per cui la crescita economica della Russia da tempo resta inferiore alla media mondiale.

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