Il franco forte è anche colpa degli svizzeri
«Mi trovavo a Roma, invitato da alcuni funzionari di Banca d’Italia per parlare di crisi bancaria, hedge fund, regolamentazione, problemi dell’Eurozona e altro. La sessione doveva durare poco più di mezz’ora, ma per finire ci siamo intrattenuti per oltre due ore mentre il mio telefono continuava a squillare: la BNS aveva deciso a sorpresa di abolire il tasso minimo di cambio di 1,20 nei confronti dell’euro scatenando una tempesta sui mercati». Così racconta al Corriere del Ticino quanto vissuto il 15 gennaio 2015 da Antonio Foglia, vicepresidente del Cda della Banca del Ceresio.
«In quel giorno, come noto, il cambio del franco ha subito una rivalutazione senza precedenti nella storia delle valute principali: dalla soglia fissa a 1,20 contro euro è schizzato attorno quota 0,85. Ma il valore minimo esatto rimane tuttora sconosciuto, poiché il mercato dei cambi è di tipo «over the counter», cioè non centralizzato su una Borsa. «Era impossibile chiudere le posizioni - conferma Foglia - perché gli intermediari non erano in grado di operare, data la situazione di panico e l’incertezza su dove fossero i compratori e venditori finali». A fine giornata, le quotazioni recuperarono terreno attorno al valore di parità contro il franco, ma lo shock, tra perdite e guadagni sui mercati, era lungi dall’essere assorbito.
Tassi bassi e franco forte
Il banchiere ed economista luganese era fra i pochi che, anche pubblicamente, riteneva errata la politica della Banca nazionale volta a contenere l’apprezzamento del franco, ancora prima dell’innovativa e coraggiosa decisione di introdurre, nel 2011, la soglia di cambio fisso contro l’euro. Come ricorda il nostro interlocutore, tra il 2000 e il 2008 il franco svizzero era diventato valuta di finanziamento in molti Paesi europei, grazie ai bassi tassi d’interesse fissati dalla BNS. «Le entità che si indebitavano in franchi li cambiavano poi nelle altre valute per investirli in asset con tassi superiori (il cosiddetto «carry trade», ndr) - spiega Foglia - e c’è stato un periodo di pressione al ribasso sulla valuta elvetica, che si è deprezzata fino a raggiungere un livello bassissimo poco prima della crisi finanziaria globale. C’erano tassisti ungheresi con ipoteche in franchi, per esempio. Poi, all’indomani della crisi, tra il 2008 e il 2011 questi debitori hanno avuto paura e chiuso le loro posizioni riacquistando franchi, ma creando così una pressione al rialzo sulla nostra valuta».
Da allora, la BNS ha compiuto sforzi enormi per contrastare l’apprezzamento del franco, a tutela anche dell’industria dell’export. Ma non senza conseguenze: acquistando euro in quantità praticamente illimitate, in poco tempo le riserve in valuta estera della BNS hanno superando la soglia di mille miliardi di franchi, più del Prodotto interno lordo di un anno della Svizzera (oggi sono attorno ai 730 miliardi).
Narrativa ingannevole
Si dice che Il franco svizzero, come l’oro, sia un bene rifugio per eccellenza. Quante volte abbiamo letto quest’affermazione per giustificarne l’apprezzamento, ma che a guardar bene è ingannevole», afferma Antonio Foglia, secondo cui la forza principale sul mercato del franco svizzero è costituita dagli investitori istituzionali svizzeri come le casse pensioni. «Data l’eccedenza delle partite correnti, pari all’8-12% del PIL svizzero, il Paese deve esportare risparmio per un ammontare analogo che non trova investimenti domestici. È un’identità di contabilità nazionale. Ma certi acquirenti di titoli esteri, come le casse pensioni, non desiderano correre tutto il rischio di cambio su di essi e si proteggono con operazioni di copertura sulle posizioni in valuta estera, tramite swap. Le prove sono schiaccianti, nel corso del tempo l’ammontare delle coperture accumulate è diventato considerevole: ad esempio, nei fondi pensione svizzeri ammonta a circa 400 miliardi di franchi. Questo ha generato una domanda costante di franchi svizzeri e spiega perché anche gli interventi della BNS sono stati generalmente continui e non particolarmente legati a momenti di panico che ci sono stati sì, ma sono poi rientrati senza che la BNS potesse ricomprare i franchi venduti».
E, non da ultimo, a tenere sotto pressione il franco c’è il citato carry trade, di cui abbiamo già riferito su queste pagine. «Ancora di recente - spiega Antonio Foglia - queste operazioni sono state di fatto “incoraggiate” dalla BNS quando ha iniziato a ridurre il tasso guida nel marzo 2024 prima che lo facesse la Banca centrale europea. Dato che l’accumulo del carry trade è lento, ma lo scioglimento è brusco e in momenti di stress, l’acquisto di franchi che provoca viene confuso come in agosto con la fuga verso la sicurezza. Cosa che ovviamente non è, per la maggior parte, visto che non ci sono state prove di vendita di franchi quando la situazione si è poi normalizzata».
Le ultime mosse della BNS sono però giudicate positivamente da Antonio Foglia: «Sebbene con la consueta discrezione, la Banca nazionale sta sfruttando le attuali opportunità offerte dal mercato, in particolare quello delle obbligazioni statali che si trova in una fase di “sell-off” (cfr. CdT di martedì 14 gennaio, ndr). Il calo dei prezzi delle obbligazioni permette di ridurre la copertura del rischio di cambio vendendo franchi che la BNS può ricomprare. Osserviamo, infatti, una riduzione delle riserve in valuta estera più rapida di quanto atteso finora», conclude l’esperto.