«La "corporate culture", se autentica, è redditizia»
Per molte aziende la «corporate culture» è un elemento fondante della propria attività, ne influenza e determina le prestazioni e, non da ultimo, il valore. Ma perché è (ancora) così importante e, soprattutto, qual è il rischio che non sia solo fine a se stessa? Ne abbiamo parlato con il professor Luigi Guiso dell’Einaudi Institute for Economics and Finance, che ne discuterà all’USI in occasione della conferenza pubblica dell’UBS Center for Economics in Society, in programma giovedì 14.
Infondere una cultura aziendale ha
ancora senso nelle grandi società, soprattutto quelle quotate in Borsa, che in
fondo mirano solo all’obiettivo, pur legittimo, di massimizzazione dei
profitti?
«Le imprese danno
moltissima importanza a stabilire una forte corporate culture, oggi più di quanto non accadesse nel
passato. Questo è ampiamente documentato, basta consultare la pagina web di una
qualunque impresa: la prima cosa che appare molto spesso, infatti, sono i
valori ai quali queste imprese dichiarano esplicitamente di aderire».
Quanto questi valori
sono «genuini» e non solo «di facciata»?
«Direi tutti e due. Ci
sono valori che vengono proclamati ma che non vengono poi perseguiti nella
pratica. Si pensi al caso Enron: sul frontespizio all’ingresso dell’allora sede
si potevano leggere i valori Integrity, Communication, Respect ed Excellence.
Ovviamente non erano i valori che venivano effettivamente praticati all’interno
di Enron, che come ben sappiamo è poi andato in bancarotta per frode. Ma la cultura aziendale può
essere in parte verificata utilizzando altre misure, per esempio confrontando le
visioni della dirigenza con quelle dei dipendenti e vedere se correlano, oppure
no, con l’immagine che l’impresa proietta verso l’esterno. In uno dei miei
studi è stato effettivamente rilevato che i valori proclamati dalle imprese non
correlano con la performance aziendale, mentre i valori dichiarati dai
dipendenti sì».
In uno dei suoi studi ha
parlato di cultura
aziendale come modo per stabilire un certo «controllo sociale» (dei
dipendenti). Può spiegare meglio questo concetto?
«Se intendiamo come “cultura” la capacità di
“indottrinare” le persone che lavorano in un’azienda, questo brainwashing può
essere utilizzato per indurre determinati comportamenti per certi versi
“distorti”. Il problema è quanto questo viene fatto come strategia consapevole
o, viceversa, quanto l’impresa semplicemente attrae persone che hanno quel tipo
di predisposizione, di interesse, o che condividono quel tipo di valori che
predominano all’interno dell’impresa».
Le imprese
internazionali sono sempre più multiculturali. Come si gestisce la
multiculturalità nel contesto di una cultura aziendale fondata magari su valori pre-globalizzazione?
«Innanzitutto, è
l’impresa che decide chi assumere e se non è in grado di gestire l’eterogeneità
nelle provenienze culturali dei dipendenti può limitarsi ad assumere con
background culturali simili. Dipende naturalmente dai profili richiesti e
disponibili sul mercato: se ad esempio all’azienda high-tech occidentale
servono informatici asiatici dovrà dotarsi di un programma di integrazione. Che
ci riesca o no è poi tutto da vedere, dipende anche dal clima che c’è
internamente all’azienda. In alcuni ambiti, penso ad esempio a quello
accademico, mischiare persone di culture diverse è relativamente semplice, perché sono
“compatibili”: condividono infatti un linguaggio (accademico, appunto) e
comunicano perlopiù in inglese. Tornando alle imprese high-tech, dove c’è
bisogno di innovare e di pensare in modo diverso, il multiculturalismo diventa
abbastanza naturale e non particolarmente problematico. Diverso, invece quando
un’impresa si trova in un ambiente che a sua volta è soggetto esternamente a
cambiare la composizione etnica, per esempio quella del mercato locale. Se
l’impresa può assumere solo localmente a quel punto subisce un po’ la
composizione del mercato e deve venire a patti con l’esigenza di integrare le
persone. Questo è un problema più complesso che riguarda in parte l’impresa e
in parte che cosa succede al di fuori di essa, in quelle comunità e nei mercati
locali del lavoro».
La generazione di oggi
(Gen Z) pare interessata più ai valori genuini e non a quelli solo proclamati.
Concorda?
«Osserviamo in effetti sempre più persone, specie quelle con livelli di
istruzione relativamente elevati, che nelle loro ricerche di lavoro danno molto
valore ad altre caratteristiche, incluso il senso stesso di lavorare. Cercano
quindi imprese dove c’è un purpose, dove c’è un obiettivo in cui si
riconoscono. Questo le imprese lo hanno capito. Per esempio, parte delle
politiche ESG o di quelle DEI (Diversity, Equity, Inclusion) che le imprese
annunciano e perseguono lo fanno perché sanno che la nuova generazione di
lavoratori cerca quel tipo di caratteristiche, valori e “missione”. Molto
spesso queste persone non vogliono lavorare in un posto qualunque, vogliono
lavorare in un posto dove possono esercitare il proprio talento e dove possono
rendere al massimo nello sfruttare le loro abilità. Ma hanno anche valori che
si portano con sé e questi debbono essere riconosciuti e identificati
all’interno dell’impresa. Uno studio di un collega mostra, con un esperimento,
che persone molto attente all’ambiente tendono ad andare a lavorare in imprese
che hanno dei valori ESG molto elevati perché lì si trovano meglio. Sanno che i
loro valori coincidono con gli obiettivi dell’impresa e sono disposti anche a
lavorare “a sconto”, con un salario del 10% inferiore rispetto a quello
chiederebbero se dovessero accettare un lavoro che comporta una rinuncia
parziale ai loro valori».