L'intervista

«La mia unica guida in questi anni è stato l'interesse generale»

Thomas Jordan alla fine di settembre lascerà la guida della Banca nazionale svizzera - L'abbiamo incontrato negli scorsi giorni a Zurigo per un resoconto della lunga esperienza in seno all'Istituto di emissione
© CdT/Gabriele Putzu
Generoso Chiaradonna
27.07.2024 06:00

Thomas Jordan è al timone della Banca nazionale svizzera dal 2012. Risale però al 1997 - quasi trent’anni fa - la sua prima entrata nella BNS, dopo un periodo trascorso quale ricercatore presso la prestigiosa Harvard University. Prima ancora aveva conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Berna, ateneo in cui si è laureato in economia. L’abbiamo incontrato a Zurigo a due mesi dal suo ultimo impegno con la BNS. A fine settembre, infatti, lascerà la direzione dell’istituto di emissione.

Presidente Jordan, all’interno della Banca nazionale ha trascorso quasi un trentennio. In questo periodo di tempo il mondo è cambiato radicalmente. Pensiamo soltanto all’avvento dell’Unione monetaria europea con la nascita dell’euro o ai numerosi eventi critici (crisi finanziaria globale, debito sovrano europeo, Brexit, Covid). In questa lunga carriera ci sono stati dei momenti in cui ha dubitato dell’efficacia di una sua misura o decisione?
«Negli ultimi dodici anni abbiamo preso delle decisioni efficaci. Abbiamo evitato fasi di deflazione e anche gestito bene il periodo d’inflazione alta in seguito alla pandemia di Covid. Le nostre decisioni erano sempre adeguate alla situazione monetaria in Svizzera. Dall’altro lato bisogna anche dire che prendiamo delle decisioni con un grado di incertezza elevato. Nessun banchiere centrale sa quali sono gli impatti precisi delle sue decisioni. È per questo che utilizziamo un risk management approach che ci permette di attuare politiche con buoni risultati in scenari diversi e la possibilità di adattarle in caso di necessità e in base ai risultati raggiunti. Questo è il principio guida che abbiamo usato negli ultimi dodici anni. Alcune decisioni sono più facili da prendere, altre meno, perché sono più difficili da adeguare, qualora fosse necessario. La soglia del tasso di cambio a 1,20 franchi per un euro è stata una di queste».

In un periodo di tempo molto lungo sono stati introdotti tassi d’interesse negativi. Alla luce dell’esperienza vissuta, sono stati una scelta corretta?
«Siamo soddisfatti del ritorno al tasso positivo. È senz’altro più agevole gestire la politica monetaria col tasso positivo che permette un margine di intervento più ampio su una leva importante. Il tasso negativo però è stato uno strumento necessario ed efficace, unito agli interventi sul mercato delle valute, in un momento molto difficile in cui il rischio di deflazione era elevatissimo. L’efficacia di questo strumento è stata elevata».

I risparmiatori sono però stati penalizzati da questa decisione, come pure le aziende, comprese le banche, le casse pensioni che avevano una liquidità importante sui conti.
«Ripeto, è stata una necessità. Anche altre banche centrali avevano abbassato i tassi fino al territorio negativo ed anche noi non potevamo fare altrimenti. Noi abbiamo scelto un sistema che ha minimizzato gli effetti secondari negativi ai risparmiatori. Abbiamo fissato dei montanti alle banche sui quali non si applicavano i tassi negativi. Non tutta la liquidità è stata quindi toccata, proprio per minimizzare gli effetti negativi sul sistema bancario e i risparmiatori. C’è stato anche chi ha beneficiato dei tassi molto bassi, come i debitori ipotecari, ma anche la Confederazione, i Cantoni e le Città il cui debito costava meno o addirittura nulla».

Tornando al franco, per un periodo, tra settembre 2011 e gennaio 2015, è stata fissata una soglia minima con l’euro. Allora qualcuno disse che era come tentare di reggere un muro con un elicottero. Per alcuni l’industria svizzera è efficiente e in grado di competere proprio perché si tiene in forma con il franco. Sarà così anche in futuro?
«Ho un grande rispetto per le imprese svizzere che operano sul mercato internazionale, come pure dell’abilità degli imprenditori che riescono a innovare. Questo avviene anche in Ticino. Bisogna però avere ben presente la differenza tra tasso di cambio nominale e quello reale. Quest’ultimo è rimasto stabile a lungo. L’apprezzamento ha in larga parte riflesso il differenziale d’inflazione tra la Svizzera e il resto del mondo. Il tasso di cambio reale è quello più importante per le imprese perché definisce la competitività dell’industria elvetica. Per la nostra economia è quindi importante che questa rimanga innovativa, flessibile e aperta. Prezzi stabili e condizioni quadro favorevoli sostengono le aziende».

E nel gennaio del 2015 ci fu l’abbandono della soglia di cambio. È storia, certo, ma ha creato un precedente che potrebbe ripetersi. Molti ambienti economici e sociali (i sindacati) si aspettano un intervento della BNS che indebolisca il franco svizzero. È giusto alimentare queste attese?
«Fu un intervento straordinario quello di fissare una soglia, in un periodo storico abbastanza eccezionale a livello internazionale. Era necessario evitare una deflazione che avrebbe anche comportato il rischio di una deindustrializzazione. Pertanto fu giusto, anche con il senno di oggi, indebolire il franco. Quando però le condizioni monetarie tra Europa e Stati Uniti sono diventate molto divergenti, abbiamo dovuto rimuovere la soglia. La Banca nazionale ha così potuto preservare la propria politica monetaria autonoma nell’interesse generale del Paese. Un cambio minimo non è un tema in questo periodo. L’obiettivo della BNS è la stabilità dei prezzi, non gli interessi specifici. Inflazione bassa è qualcosa che va a beneficio di tutti: imprese, lavoratori e consumatori. In altri paesi l’inflazione elevata tra il 2022 e il 2023, vicina al 10% l’anno, ha diminuito drasticamente il potere di acquisto, soprattutto dei redditi più bassi. Quindi, il nostro mandato è più importante di quello percepito: la stabilità dei prezzi contribuisce anche alla stabilità del Paese, dell’economia ovviamente e fatto non secondario, alla coesione sociale».

Negli ultimi anni si è recato regolarmente in Ticino. Qual è il suo rapporto con il cantone svizzero di lingua italiana?
«Ho un legame particolare con il Ticino. Ho molte volte incontrato il mondo imprenditoriale ticinese, che trovo molto dinamico e in grado di superare eventi critici. Mi sono recato spesso anche presso l’Università della Svizzera italiana, ma è negli anni ottanta che ho avuto modo di conoscere meglio i ticinesi. Ed è stato durante il mio periodo nell’esercito quando, dovendo pagare il grado di tenente, sono stato al comando di un plotone di soldati ticinesi a Emmen. Quell’esperienza mi è servita per meglio comprendere anche la realtà socioeconomica di una componente culturale e linguistica importante della Svizzera. È stata una esperienza formativa e arricchente dal punto di vista umano».

Il Ticino però è anche il Cantone che contava sulla distribuzione degli utili della Banca nazionale. Eppure il bilancio della BNS è ancora grande, oltre il 100% del PIL?
«La distribuzione a Confederazione e Cantoni è retta da una convenzione molto chiara e noi siamo lieti di versare delle somme importanti (tra zero e sei miliardi l’anno, ndr), se ne siamo in grado. Ma se la situazione del nostro bilancio non lo permette, se i fondi propri sono troppo bassi, non possiamo finanziare i conti di Confederazione e Cantoni, sarebbe sbagliato e contrario al mandato. Negli ultimi dodici anni abbiamo versato complessivamente 25 miliardi di franchi. Se in futuro la situazione migliorerà, la BNS tornerà a distribuire fondi».

Rimanendo nel campo del bilancio, si è anche parlato della BNS come di un fondo speculativo esposto verso i mercati finanziari esteri (più azioni volatili che obbligazioni pubbliche ritenute più sicure), da qui la grande perdita del di oltre 135 miliardi di franchi tra il 2022 e il 2023.
«Il nostro bilancio non è un fondo speculativo, bensì coadiuva la nostra politica monetaria. La nostra politica di investimento è guidata dal principio di avere un grado di liquidità sufficiente da un lato e mantenere il valore reale di questi attivi dall’altro. Con le azioni si ha più volatilità, ma anche un rendimento più alto. Il nostro bilancio è composto per il 68% da obbligazioni statali o di organizzazioni sovranazionali con alta liquidità, il 25% da azioni e dal 7% da obbligazioni aziendali».

La politica monetaria svizzera è anche influenzata da quello che succede all’estero e su cui non si può incidere (crisi del debito sovrano UE, populismo e guerra in Ucraina). Gli strumenti della BNS (tassi d’interesse e quantità di moneta) dovrebbero essere rinnovati?
«Siamo stati molto innovativi nell’ambito delle misure non-convenzionali, per esempio con il tasso di interesse negativo o gli interventi sul mercato dei cambi. Chi è chiamato a curare gli interessi monetari del Paese cerca sempre di impiegare al meglio i propri strumenti, tenendo conto di eventuali effetti secondari».