La Svizzera non intende partecipare alla «guerra dei dazi» degli Stati Uniti
Tempi duri per chi, negli Stati Uniti, crede nella transizione energetica e decide di virare sul «green», installando per esempio pannelli solari o acquistando un’auto elettrica, due importanti segmenti di consumo dominati dalle industrie cinesi. Dal 1. agosto, infatti, negli USA sono entrate in vigore le nuove imposizioni doganali - tra il 50 e il 100% del prezzo d’importazione - su celle, moduli solari e auto elettriche (EV) di fabbricazione cinese. Un’auto Seagull della casa automobilistica cinese BYD da 20 mila dollari, per fare un esempio, costa ora il doppio, raggiungendo quindi il costo lordo di una Tesla Model 3 fabbricata in California a Fremont. Lo stesso modello assemblato in Cina a Shanghai e importato negli USA costerebbe 80 mila dollari. Misure analoghe le introdurrà anche il Canada sulle EV cinesi (incluse le Tesla made in China) al 100% a partire dal 1. ottobre. L’Unione europea (UE), da parte sua, ha annunciato dazi sulle EV cinesi, fino al 36% a partire dall’autunno in aggiunta al 10% sulle batterie di produzione cinese. Pechino, dal canto suo, non intende restare con le mani in mano e sta valutando la possibilità di aumentare i dazi sull’importazione di autoveicoli di grossa cilindrata prodotti nell’Unione europea.
Non si vive però solo di EV o di pannelli solari, così come non tutti i Paesi occidentali aderiscono a questa «guerra dei dazi». Vale per la Svizzera che, anzi, gode di un accordo di libero scambio (ALS) con l’Impero celeste dal 2014, il cui rinnovo è attualmente sul tavolo del Consiglio federale. Proprio lo scorso 27 agosto la Commissione della politica estera del Consiglio nazionale si è infatti espressa a favore del mandato negoziale per la «modernizzazione» dell’ALS, chiedendo cioè al Governo di considerare, tra le altre cose, i rischi derivanti dalla dipendenza dalle materie prime critiche e strategiche.
La posizione delle PMI
Ma che bilancio si può trarre da questi dieci anni di libero scambio con la Cina e, soprattutto, quanto è forte il rischio che l’economia svizzera si trovi «schiacciata» fra le due parti del conflitto commerciale? Iniziamo col precisare che la Cina è sì il terzo partner commerciale della Svizzera, dopo l’UE e gli USA, ma con valori molto inferiori: la metà dell’export svizzero va infatti nell’Unione (circa 200 miliardi di franchi), il 18% circa negli USA e «appena» il 5,6% in Cina - un dato, quest’ultimo, oltretutto in calo del 3,5% nel 2023.
Ma che cosa esportiamo nel Paese asiatico? Principalmente prodotti dell’industria chimica e farmaceutica, strumenti di precisione, orologi e gioielli e macchinari. Se escludiamo i «big player» della farmaceutica oppure i colossi come ABB o Nestlé, il «nocciolo duro» dell’industria d’esportazione svizzera è rappresentato dalle PMI che producono, appunto, macchinari e strumenti di alta precisione, molto richiesti nel mondo e anche in Cina.
«Posso confermare che abbiamo ricevuto più richieste di informazioni da parte dei nostri clienti, soprattutto da quelli che si occupano di tecnologie “sensibili” agli occhi di Washington», dichiara al CdT Daniel Bont, consulente senior per l’Asia di Switzerland Global Enterprise (S-GE). «Bisogna considerare che a causa delle sanzioni economiche imposte alla Russia - aggiunge Bont - la Cina è diventata uno dei principali partner commerciali di Mosca, il che significa che Pechino esporta anche merci o manufatti prodotti con macchinari svizzeri, c’è quindi un po’ di preoccupazione in questo senso, cioè di trovarsi coinvolti, involontariamente, nelle tensioni geopolitiche e le relative conseguenze».
«Localizzazione forzata»
Ma c’è un altro fattore che preoccupa, forse ancora di più, le PMI svizzere che lavorano con la Cina: la «localizzazione forzata» - ovvero le politiche e le normative del Governo di Pechino che impongono alle aziende di produrre o assemblare prodotti in Cina -, che fa parte della strategia «Made in China 2025». «Alcune aziende svizzere potrebbero non essere più in grado di partecipare a gare d’appalto governative se non possono fornire prodotti fabbricati in Cina», spiega l’esperto di S-GE. «In particolare - prosegue - per quelle aziende iperspecializzate che sviluppano tecnologie o producono componenti “su misura”, soprattutto in piccole quantità, potrebbe essere economicamente insostenibile dover creare un’unità di produzione in loco. In effetti iniziamo a vedere anche una tendenza delle aziende a cercare soluzioni in altri Paesi perché si sentono meno libere di seguire una propria strategia d’affari in Cina».
Il nostro interlocutore resta tuttavia ottimista: «Il fatto che molte società statunitensi, ma non solo, hanno deciso - volontariamente o meno - di ricollocare le loro attività altrove, in Asia oppure rimpatriandole del tutto, rappresenta un’interessante opportunità per le aziende svizzere». Per quanto riguarda, infine, l’ALS, Daniel Bont ritiene che «in generale ha funzionato bene finora, anche se il settore specifico delle macchine utensili avrebbe forse potuto trarre maggiori benefici, nel senso che le tariffe di importazione non sono state ridotte o abolite e dovrebbero essere migliorate».
Un accordo di successo
«Dal punto di vista economico l’accordo di libero scambio tra Svizzera e Cina siglato nel 2014 è stato un grande successo», sostiene Robert Wiest, presidente della Camera di commercio Svizzera-Cina (SCCC), che al CdT indica come il volume degli scambi sia più che raddoppiato, con un incremento annualizzato del 12,7% e con la quasi totalità delle tariffe doganali praticamente sparite o fortemente ridotte, consentendo alle aziende svizzere enormi risparmi (220 milioni di dollari nel 2022, cifra triplicata rispetto ai 70 milioni del 2018). «Il commercio fra i due Paesi - prosegue - è aumentato soprattutto nel periodo prima della crisi pandemica, benché questo si inserisca nel contesto dell’incremento del commercio globale. È quindi utile guardare anche il periodo post-COVID, che mostra valori ancora molto interessanti». Nel 2023, per esempio, il volume degli scambi è cresciuto del 4,4%, raggiungendo quota 59,5 miliardi di dollari.
Buone prospettive
I rapporti commerciali tra Svizzera e Cina hanno una lunga tradizione, sono ben più antichi dell’ALS che, come anticipato , è in fase di rinegoziazione. La Confederazione è infatti stata il primo Paese occidentale a riconoscere la Repubblica popolare di Mao, nel 1950, mentre trent’anni dopo Schindler (ascensori) è stata la prima industria occidentale a insediarsi in Cina (tramite una «joint venture» con un’azienda statale cinese). Ma rispetto ad allora il contesto geopolitico è molto cambiato. Fra Occidente e Cina le tensioni non mancano e si sono viepiù acuite negli ultimi anni.
Qual è la prospettiva, in questa delicata fase, per il rinnovo dell’ALS? Ancora Wiest: «Le richieste “non economiche” della Commissione del Nazionale (relative, per esempio, al rispetto dei diritti umani oppure dell’ambiente, ndr) non sono nuove, erano già state fatte in passato, ancora prima dell’accordo e quindi sono conosciute e non comprometteranno le negoziazioni. D’altra parte, la Cina è consapevole di questi temi e capisce la loro importanza per i suoi partner commerciali in Occidente e si aspetta quindi che la Svizzera li porti al tavolo delle negoziazioni», conclude.