Obbligazioni

L’arma dei titoli statunitensi contro i dazi di Donald Trump

La Cina sta riducendo la sua esposizione nei Treasury americani - Nell’ultimo decennio Pechino ha ceduto bond USA per 550 miliardi di dollari - Alla fine del 2013 ne possedeva per 1.317 miliardi - Un segnale alla politica commerciale USA
©BONNIE CASH / POOL
Dimitri Loringett
25.02.2025 06:00

Il tema non è nuovo, ma nell’attuale contesto delle accresciute tensioni commerciali con gli Stati Uniti assume maggiore importanza: la Cina starebbe vendendo i titoli del Tesoro USA in suo possesso. Dai massimi del 2013 a 1.317 miliardi di dollari, la Cina ha ridotto progressivamente le sue posizioni in Treasury di circa 550 miliardi, raggiungendo, nel dicembre scorso, il livello del 2009 a 759 miliardi. Il dato emerge dai conti del Dipartimento del Tesoro USA che la settimana scorsa ha pubblicato i dati relativi alle sue emissioni di titoli obbligazionari, in particolare quelli in mani straniere: a dicembre i Treasury in essere detenuti da entità estere ammontavano a 8.513 miliardi di dollari, in calo rispetto a novembre (8.633 miliardi) e a settembre (8.679 miliardi). La Cina è il secondo investitore estero nel debito pubblico statunitense dopo il Giappone, che detiene attualmente 1.060 miliardi di dollari di titoli di Stato USA.

Dicevamo che il tema assume maggiore importanza nell’attuale contesto, geopolitico ma soprattutto commerciale, entrambi tesi, tra Stati Uniti e resto del mondo. Da una parte, diversi osservatori temono che la Cina possa continuare a vendere i Treasury come rappresaglia ai dazi commerciali che l’Amministrazione Trump vuole imporre alle merci cinesi importate negli Stati Uniti, mentre dall’altra si rafforza nuovamente l’idea che la riduzione dello stock di Treasury detenuto da entità finanziarie cinesi sia parte di una strategia dei Paesi del blocco BRICS per de-dollarizzare le loro economie. Nel breve e medio termine, tuttavia, una generale dismissione massiccia di investimenti esteri in titoli di Stato USA è molto poco probabile, ma le riduzioni osservate lo scorso anno destano comunque qualche preoccupazione, specie se dovessero continuare anche quest’anno. Infatti, l’eventuale ulteriore riduzione della domanda estera di Treasury potrebbe contribuire a far aumentare i rendimenti (in gennaio il «sell off» dei T-bond americani aveva spinto i rendimenti del decennale al 4,80%, ndr), facendo incrementare il costo del servizio sul debito pubblico USA e rendendo quindi più difficile raggiungere l’obiettivo dell’Amministrazione Trump di ridurlo.

È l’inflazione a far salire i tassi

C’è quindi da preoccuparsi? «Il principale fattore che possa far salire i rendimenti dei Treasury è l’aspettativa futura per i tassi d’interesse di riferimento (i Fed funds, ndr) nei prossimi 6-12 mesi, che dipende dal contesto economico e quindi da fattori quali impiego e inflazione», sostiene George Curtis, gestore di portafogli presso TwentyFour Asset Management, una boutique di Vontobel con sede a Londra, che al CdT spiega come la questione dei bond USA in mano estera sia da relativizzare. Ma il mercato dei tassi d’interesse a breve termine non spiega tutto, dice Curtis: «C’è anche la domanda e l’offerta di titoli di Stato. L’offerta è determinata da ciò che fa il Tesoro come conseguenza di ciò che fa il governo di Washington in termini di deficit. Sappiamo che l’offerta è stata elevata perché gli Stati Uniti hanno un deficit di bilancio del 6% circa del PIL, che non sembra destinato a ridursi presto. Ma sul fronte della domanda, negli ultimi anni si sono verificati alcuni cambiamenti interessanti». «Per gran parte dell’ultimo decennio, il mercato dei Treasury è stato caratterizzato da acquirenti piuttosto importanti, insensibili ai prezzi: la Fed acquistava titoli di Stato a lunga scadenza nell’ambito del suo programma di Quantitative easing (QE), mentre le banche centrali estere aumentavano le posizioni in Treasuries», continua Curtis. «Ma ora la Fed non sta più acquistando obbligazioni nell’ambito del suo programma di QE, sta vendendo sul mercato o sta almeno facendo sì che le obbligazioni presenti nel suo bilancio vengano ritirate. Anche le banche centrali estere hanno ridotto le loro posizioni in titoli di Stato USA. Per questa categoria di investitore, il principale indicatore della domanda di titoli di Stato USA è l’andamento del dollaro: le banche centrali estere utilizzano generalmente i Treasury per la gestione delle proprie riserve e se il dollaro si indebolisce, tendono ad acquistare dollari per riequilibrare il proprio portafoglio e limitare l’apprezzamento della propria valuta. Se si guardano i movimenti delle banche centrali straniere negli ultimi quattro o cinque anni, si nota infatti una correlazione piuttosto elevata - e inversa - tra prezzi dei Treasury e l’andamento del dollaro».

Sono «trasferimenti»

Tornando brevemente sulla questione dei titoli di Stato USA in mano cinesi, va detto - come osserva il nostro interlocutore e anche alcuni analisti interpellati dai media specializzati - che il calo delle posizioni in Treasury in mani cinesi verosimilmente non è dovuto a delle vere e proprie vendite, bensì a dei «trasferimenti» verso depositari di titoli come Euroclear e Clearstream, in Belgio e Lussemburgo rispettivamente. Quindi, per citare Shakespeare, «molto rumore per nulla»? Ancora Curtis: «Ci aspettiamo che la volatilità dei tassi rimanga elevata poiché le banche centrali rimangono fortemente dipendenti dai dati e l’inflazione rimane sopra l’obiettivo. Anche se non ci aspettiamo un grande rally nella duration (o durata finanziaria, ndr) al di fuori di una recessione - che non stiamo prevedendo- ci piace possedere titoli del Tesoro statunitense e obbligazioni governative europee (sia in dollari sia in euro) per bilanciare il credito nel portafoglio», conclude.

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