Le imprese si adeguano a un mondo più incerto

Tra neoprotezionismo di stampo trumpiano, guerre e tentativi di ricomposizione del quadro internazionale attorno a equilibri inediti - dettati più che altro dall’allontanamento dall’Europa dello storico alleato statunitense -, la congiuntura economica nazionale non è di quelle che invitano a stappare bottiglie di champagne, ancorché non gravato dai dazi americani. La sovratassa del 200% sui vini europei esportati negli Stati Uniti, infatti, dovrebbe entrare in vigore nei prossimi giorni. Il condizionale è d’obbligo, vista la natura volitiva del presidente Donald Trump che da qui alla prossima settimana potrebbe aver cambiato idea più volte aggiungendo ulteriore incertezza in un momento economico già difficile.
L’economia svizzera che è piccola, ma aperta e integrata nei mercati globali, può subire effetti molto negativi da una politica commerciale protezionista anche in modo solo indiretto. Non solo quindi sulla sua quota - importante - dell’export verso in Nord America. Ben il 19% del volume dei beni e dei servizi svizzeri venduti fuori dai confini nazionali, per esempio, ogni anno va verso gli Stati Uniti. Poche settimane fa un’analisi di UBS ha stimato la crescita del PIL svizzero all’1,5% per il 2025 a patto che non si acuisca uno scontro commerciale tra USA e Cina. In questo caso la stima di crescita è da considerarsi dimezzata. È facile, inoltre, immaginare cosa potrebbe accadere in caso di misure doganali dirette contro l’industria svizzera.
All’inizio dello scorso anno il Consiglio federale - in un’ottica diametralmente opposta a quella protezionista che guida l’amministrazione Trump - mettendo in vigore una decisione delle camere del 2021, ha azzerato completamente i dazi sui beni industriali importati in Svizzera a prescindere dall’origine di questi prodotti. In questo modo è stato permesso agli importatori svizzeri un risparmio stimato in circa 860 milioni di franchi l’anno proprio con l’intento di aumentare la competitività del settore manifatturiero sgravandolo anche di oneri amministrativi e favorire quindi, indirettamente, i consumatori. Eventuali dazi statunitensi sui prodotti svizzeri farebbero quindi doppiamente male. Ma siamo, come si dice, in un ambito ancora ipotetico di politica commerciale e di dinamiche economiche.
Quello che è certo che già in questi mesi l’umore delle imprese svizzere è cambiato in peggio e non solo in termini di percezioni. Swissmechanic, l’associazione delle imprese delle industrie MEM (meccanica, elettrica e metallurgica), ha reso noto la scorsa settimana che circa un terzo delle aziende del settore (1.300 gli associati) è in una situazione di lavoro ridotto, ovvero con maestranze in disoccupazione parziale. Tra queste, sono le PMI a essere particolarmente colpite dal fenomeno. La quota sale al 45% fra le imprese con un numero di dipendenti tra 10 e 49 e il 29% fra quelle con un numero di collaboratori tra 50 e 249. Non siamo a numeri da crisi conclamata, ma rappresentano pur sempre un campanello d’allarme.
Restringendo l’area di osservazione a livelli ancora più micro, negli ultimi mesi più di un’impresa ticinese ha annunciato forti riduzioni del personale. Aveva iniziato la Mubea di Gravesano, finita nella crisi del settore automobilistica, con una settantina di posti di lavoro cancellati (altri 130 in Turgovia) e la chiusura dello storico sito produttivo. Un paio di mesi dopo c’è stata la ristrutturazione della Bally di Caslano: 65 gli impieghi cancellati. A inizio anno, invece è stata Sintetica ad annunciare 55 esuberi, 15 dei quali in Ticino. Sono poi seguiti gli annunci di riorganizzazione di altre due importanti datori di lavoro nel Mendrisiotto e votate all’export: VF International e Consitex.