L’Europa è praticamente in stagnazione da due anni
La stagnazione ormai si è impadronita dell’economia europea da un paio di anni a questa parte. Le stime di crescita del PIL per l’intera Eurozona sono nell’ordine dello 0,7% per quest’anno. Non si è in territorio negativo, è vero, ma non è però un ritmo tale da permettere l’assorbimento dei crescenti deficit di bilancio di alcuni Paesi dell’Unione europea. Il rapporto deficit/PIL francese, per esempio, è di circa il 6% per quest’anno e con la crisi politica che si è aperta in questi giorni non è destinato a scendere a breve termine. Per quanto riguarda le prospettive d’investimento a cura di UBS le cinque «D» (debito, demografia, digitalizzazione, deglobalizzazione e decarbonizzazione) svolgeranno un ruolo di primo piano nei prossimi dieci anni, «creando opportunità e rischi per gli investitori», spiega Matteo Ramenghi, CIO di UBS Wealth Management Italia. «Nel complesso ci aspettiamo che diano luogo a un’accelerazione della crescita e a periodi di aumento dell’inflazione a lungo termine», commenta ancora l’esperto. La politica monetaria di Fed, BCE e BNS rimarrà accomodante con ulteriori tagli del costo del denaro.
A complicare la situazione macroeconomica continentale sono le crisi politiche in Germania che viaggia sull’orlo della recessione e quella in Francia che è in una condizione economica migliore, ma con un debito pubblico crescente.
Dall’altra parte dell’Atlantico troviamo un’economia statunitense ancora in piena forma, nonostante l’inflazione non sia ancora rientrata sotto il fatidico 2% l’anno e il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. «Dall’inizio degli anni 2020 - ha ricordato ancora Ramenghi - i mercati azionari globali sono saliti di circa il 50%, il Prodotto interno lordo (PIL) nominale degli Stati Uniti è cresciuto di oltre il 30% e gli utili delle società americane sono aumentati di quasi il 70%». E tutto ciò malgrado i lockdown senza precedenti in tutto il mondo, le guerre scoppiate in Europa orientale e in Medio Oriente e il più forte aumento dei tassi d’interesse e dell’inflazione da diversi decenni». Non per niente gli analisti parlano di ritorno agli anni ruggenti - quelli dell’inizio del secolo scorso - ma non per tutti.
Dell’imprevedibilità di Donald Trump si è detto tutto in questo ultimo mese. La certezza è data dalla politica economica molto liberale per quanto riguarda l’interno e un inasprimento della politica protezionista verso l’esterno.
«I dazi, in particolare il 60% sulle importazioni cinesi e il 10% su altre, rappresentano il rischio economico globale più significativo», afferma invece Elena Guglielmin, Senior Credit Analyst e CIO di UBS Global Wealth Management.
«Date le potenziali sfide legali e del Congresso, riteniamo che l’amministrazione Trump sia più propensa ad attuare tariffe bilaterali e selettive. È probabile che tali dazi contribuiscano alla volatilità dei mercati europei e cinesi, ma nel nostro scenario di base non crediamo che possano far deragliare la crescita degli Stati Uniti», precisa ancora Guglielmin.
E la Svizzera? «Rispetto a Stati Uniti e Unione europea è giusto nel mezzo con prospettive di crescita doppie rispetto all’Europa e un potenziale maggiore in caso di ripresa economica del Vecchio Continente», afferma l’economista di UBS. Il franco svizzero rimarrà ancora forte contro l’euro in una forchetta tra 0,92 e 0,94 centesimi. Rimarrà un po’ più debole nei confronti del dollaro americano. I fondamentali svizzeri (indebitamento, deficit, inflazione e disoccupazione, tutti molto sotto controllo) rimangono solidi. Le tensioni geopolitiche preoccupano però l’organizzazione economiesuisse che teme per le esportazioni, soprattutto verso l’Europa, e un PIL (+1,4%) al di sotto del potenziale.