Ma come sono uscite Casio e Renault dalla vicenda Piqué-Shakira?

Shakira, ancora lei. Piqué, ancora lui. Stavolta, però, al centro non c’è la canzone-vendetta che tanto ha fatto (e sta facendo) discutere. No, c’è l’effetto che l’ondata generatasi sui social ha avuto e potrebbe avere sui marchi coinvolti, in primis quelli – teoricamente – usciti peggio: gli orologi Casio e Twingo, l’utilitaria della Renault. Teoricamente perché, in realtà, la cattiva pubblicità non sempre si traduce in pessimi affari. Anzi, c’è modo perfino di guadagnarci qualcosa. Per capirne di più abbiamo fatto una chiacchierata con Vincenzo Russo, professore presso la Libera università di lingue e comunicazione IULM di Milano, dove fra gli altri si occupa del corso di Psicologia dei consumi e neuromarketing.
Professore, la polemica
Piqué-Shakira oramai è sulla bocca di tutti. Partiamo da una considerazione
banale: Casio e Renault possono ritenersi soddisfatte, come aziende, dello
scambio di battute e vedute fra la cantante e l’ex calciatore?
«La cosa più intelligente
da fare, in questi casi, è cavalcare l’onda. Guai, insomma, se un’azienda
facesse finta di nulla. Credo che tanto Casio quanto Renault abbiano fatto
questo. Sì, hanno giocato con la visibilità social che ha avuto la vicenda.
Cavalcandola, appunto. È ovvio, d’altro canto, che non si potrà mai confrontare
una Ferrari con una Twingo. Tradotto: la Twingo in quanto automobile non ha
problemi, come non ne ha un orologio Casio che, a sua volta, non può essere
paragonato a un Rolex. L’abilità, allora, sta proprio nel giocare la carta dell’essere
diversi. Va pure detta un’altra cosa».
Prego…
«Quello che fino a poco
tempo fa era un must, una regola fondamentale, ovvero la fedeltà alla marca,
oggi non esiste più. I consumatori tengono comportamenti molto più ondivaghi,
per cui in determinate occasioni potrebbero indossare un Casio e in altre un
Rolex».
Sui social, in
questi giorni, siamo stati letteralmente bombardati. Casio, Rolex, Ferrari,
Twingo. Come si traduce tutto ciò a livello di consumi e consumatori?
Formuliamo meglio: è possibile che, ora, le vendite di Casio ad esempio
miglioreranno?
«È possibile, sì. Di
fronte a situazioni del genere, apparentemente ridicole, ci chiediamo quale
sarà il comportamento razionale dei consumatori. Ma i consumatori non sono
razionali. Per tanto tempo ci è stato detto che siamo macchine pensanti che si
emozionano. Le neuroscienze, invece, ci dicono che la prima parte del cervello
ad attivarsi di fronte a qualsiasi stimolazione è quella dell’emozione. Perciò,
in realtà siamo macchine emotive che pensano. Quindi, se mi sento ripetere di
continuo parole come Casio, Rolex e via discorrendo si scatena un meccanismo di
curiosità».


Curiosità e
familiarità, giusto?
«Sì, è un altro elemento
da tenere presente. Ed è uno degli effetti più noti quando parliamo di
psicologia dei consumi. Il termine tecnico è mera esposizione. Più un prodotto
viene esposto e reso familiare, e la pubblicità tutto sommato fa questo, più
diventa gradevole e piacevole. Alla fine, di fronte a tanti stimoli, ad esempio
davanti a uno scaffale, il prodotto che conosco mi piacerà di più. Perché? Per
il cervello più antico, quello primario, tutto ciò che è familiare non è
pericoloso e, di per sé, è attrattivo».
Quanto aiuta, in
questo senso, l’effetto social?
«Sui social la vicenda ha
avuto ampia copertura, grazie anche all’ironia e a condivisioni di meme. Per un’azienda,
tutto ciò si trasforma in un’occasione per far parlare di sé e per essere
memorizzati. A parità di condizioni di acquisto, dunque, perché una vicenda
come questa non dovrebbe stimolare le vendite dei marchi coinvolti? Attenzione,
però: il processo non è automatico e sarebbe errato o quantomeno azzardato affermare
che sì, sicuramente ci sarà un aumento delle vendite. Di sicuro, ripeto, i vari
brand citati rimarranno nella memoria dei consumatori. Per questo è importante
che le aziende non restino in silenzio».
Che cosa vorrebbe
dire stare in silenzio?
«Due cose. Primo: che le
aziende non hanno la capacità di rispondere velocemente a eventuali
sollecitazioni. Secondo: che le aziende non hanno la necessaria lucidità e la
giusta ironia per poter giocare con una visibilità indubbiamente non voluta ma
ineludibile. Una visibilità che, come detto, potrebbe pure aprire a degli
affari».


Girando la
questione, se sono un cliente affezionato di un marchio – alla fine – chi dice
cosa è secondario. Shakira, nel concreto, può denigrare quanto vuole Casio ma
se è il mio orologio preferito niente e nessuno potrà togliermelo.
«C’è un meccanismo molto
interessante, chiamato dissonanza cognitiva: se ho scelto un prodotto e, poi,
quel prodotto per un motivo o per l’altro ha una piccola deficienza, la citata
dissonanza fa in modo che quell’elemento di negatività venga rimosso o considerato
non importante».
Può farci un
esempio pratico?
«Tutti i fumatori sanno
perfettamente che il fumo fa male. Eppure, continuano a fumare nonostante le
comunicazioni e i riferimenti al fatto che il fumo provochi il cancro. Qui
entra in gioco la dissonanza cognitiva. C’è chi afferma che esistono altre cose
molto più pericolose o chi, ancora, ricorda casi come il nonno che ha fumato
per novant’anni e non è certo morto di tumore. Detto in altri termini, troviamo
sempre degli escamotage. Venendo a Piqué e Shaqira, esistono aziende con marchi
talmente potenti che un piccolo neo non provoca conseguenze. Il discorso cambia
se un brand, per contro, non ha ancora alle sue spalle innamorati e clienti
fidelizzati».
In parte ha già
risposto a questa domanda, ma gliela proponiamo lo stesso. Shakira, in
pochissimo tempo, ha raggiunto milioni e milioni di visualizzazioni con il
video della sua canzone. Significa che, per le aziende coinvolte, il tempo di
reazione era ridottissimo. Come la mettiamo?
«Le tematiche legate alla
comunicazione di crisi hanno subito certamente un’accelerazione in termini di
attenzione e sensibilità. Ci sono grosse aziende, da Nestlé in giù, che
investono tanto per tenere sotto controllo le informazioni. Anche perché, come
detto, rimanere in silenzio è il peggio che possa capitare. E ce lo insegna, a
suo modo, proprio Nestlé: negli anni Settanta, l’azienda venne associata alla
vendita di latte in polvere scaduto ai Paesi africani. Erano fantasie, ma
crebbero fino a diventare un problema reale per Nestlé. Perché? L’azienda non
seppe dare una risposta rapida, con tutto che allora non c’era Internet di
mezzo. Preferì adottare una strategia del tipo vabbè, tanto passerà. Non passò,
tant’è che ancora oggi quando chiedo ai miei studenti di indicare un problema storico
di Nestlé ricevo delle risposte fuori dal mondo: il latte scaduto, il fatto che
venisse usato assieme ad acqua inquinata e altro ancora. Stupidaggini
colossali, quando all’epoca semmai il vero problema dell’azienda era che il
prezzo del latte in polvere fosse troppo alto».
Rimaniamo sul caso
singolo: come si comporta, oggi, Nestlé?
«Nestlé oggi ha una capacità
di fuoco impressionante. In azienda c’è un’intera sala deputata al controllo
dei social, con decine e decine di giovani coinvolti. E l’intercettazione delle
notizie false funziona. Tempo fa, Nestlé fu ingiustamente accusata di aver
bruciato una foresta in Indonesia per ricavarne piantagioni di palma da olio e,
nel processo, di aver ucciso un orango. Intanto, Nestlé non usava e non usa
olio di palma: quindi c’era già un primo elemento di falsità. Poi, in poche ore
il team seppe dimostrare che quell’incendio e quell’orango erano legati a una
mossa di alcuni allevatori. Oggigiorno, riassumendo, bisogna essere capaci di
muoversi in un certo modo sui social. E bisogna avere una maturità di marketing
superiore, sia come velocità di esecuzione sia come intelligenza nelle
risposte. Casio e Twingo, mi sembra di poter dire, hanno abbracciato bene
queste necessità».