Mar Rosso, soluzioni lontane e i costi non smettono di salire

Il Mar Rosso rimane protagonista non solo come paradiso sottomarino ma, purtroppo, anche quale teatro di crisi. Le operazioni condotte da Israele, USA e Regno Unito contro i porti dello Yemen e gli attacchi degli Houthi contro vari mercantili, hanno riportato l’attenzione verso la sua parte meridionale. L’area era balzata agli onori delle cronache per l’abbordaggio e la posa di esplosivi alla grande petroliera greca Sounion, andata a fuoco con un carico di quasi un milione di barili di petrolio iracheno. Si è temuto che l’azione potesse dare origine a un’enorme disastro ambientale con costi diretti ed indiretti di varie decine di miliardi di dollari e che, oltre a tutto, avrebbe avuto conseguenze negative anche sulle coste yemenite e su quelle prospicenti il Golfo di Aden.
Nonostante le azioni subite, i ribelli Houthi, sostenuti dall’Iran, appaiono in grado di contrastare l’attività marittima nella regione, causando potenziali danni di grande entità e preoccupando non solo armatori ed operatori marittimi, ma anche le autorità di altri Paesi della regione, ad iniziare dall’Arabia Saudita, che nel Sud del Mar Rosso sta investendo massicciamente in campo turistico ed immobiliare.
Una situazione critica del genere si era verificata nell’ottobre 2002, quando la petroliera Limburg con 410 mila litri di greggio era stata attaccata dai militanti di Al-Qaeda nel Golfo di Aden.
Per il petrolio polizze speciali
Va notato che, secondo quanto previsto dalle norme dell’International Maritime Organization (IMO), in caso di fuoruscita di petrolio frutto di un’azione bellica, i danni non sono coperti dalle normali polizze assicurative. L’armatore potrebbe sottoscrivere una polizza «speciale», facoltativa e dal costo molto elevato. Peraltro il settore assicurativo marittimo si trova già sotto pressione per le richieste di risarcimento di circa 4 miliardi di dollari a seguito dell’incidente del ponte di Baltimora, e dei 2 miliardi legati al naufragio della Costa Concordia all’Isola del Giglio. Per gli armatori, i maggiori costi assicurativi si sommano a quelli legati alla nuova rotta attraverso il Capo di Buona Speranza.
Nel 2023 ad attraversare il Mar Rosso sono state circa 21.300 navi, circa 60 al giorno, il 12% del traffico marittimo globale. Nel luglio del 2024 il traffico di navi mercantili era sceso a 30 al giorno, e oggi è ulteriormente diminuito, mentre il ritorno alla sicurezza, concetto comunque relativo, e alla normalità, sembra ancora lontano.
Sulla rotta fra Asia ed Europa il transito attraverso il Mar Rosso vuol dire un risparmio di circa 4.000 miglia nautiche rispetto alla rotta del Capo, che comporta mediamente due settimane in più di navigazione e costi aumentati del 35%, anche per la maggior velocità volta ad attenuare i ritardi nelle consegne.
Ma gli operatori che optano per il mantenimento della rotta tradizionale si chiedono ora se la presenza delle navi militari sia sufficiente a garantire la sicurezza regionale, tenuto anche conto della recrudescenza della pirateria somala, favorita dalla situazione di confusione dell’area e dai collegamenti fra ambienti della pirateria, gruppi terroristici di Al-Shabaab ed Houthi stessi che ora, secondo informazioni provenienti dal Qatar, sarebbero in possesso di un’arma nuova, un drone navale USA catturato e modificato.
Pesano le tasse ambientali UE
Per ora, il risparmio del pedaggio per l’attraverso del Canale di Suez (con gravi danni per le finanze del Cairo), l’anemica ripresa economica, l’abbondanza di naviglio e container disponibili hanno limitato gli effetti inflazionistici, ma lo scenario può cambiare, soprattutto con l’entrata in vigore della famigerata norma europea ETS (Emissions Trading System) che prevede una tassa di 18 euro per ogni container, da applicare sulle navi di compagnie europee e che fanno scalo in porti europei.
Il mutamento avvenuto nei flussi logistici è chiaro. Prima della crisi del Mar Rosso il 53% del traffico marittimo fra Asia ed Europa passava dal Canale di Suez, il 23% dal Canale di Panama ed il 23% dal Capo di Buona Speranza. Ora da Suez il volume è sceso al 15%, il 26% è via Panama ed il 58% circumnaviga l’Africa.
Chi continua a transitare nel Mar Rosso usa vari accorgimenti di protezione, come spegnere il proprio AIS-Automatic Identification System, indicare di avere un equipaggio «interamente cinese» e di non avere alcuna relazione con Israele, Stati Uniti e Regno Unito. Anche alcune compagnie italiane continuano a percorrerlo, come è stato riferito in occasione del recente convegno di Lugano «Un Mare di Svizzera». Tuttavia, in caso di aumento delle tensioni con l’Iran, quanto accade nel Bab el-Mandeb, nel Sud del Mar Rosso e nei bacini adiacenti, potrebbe replicarsi nello Stretto di Hormuz, con conseguenze notevoli in particolare nel mercato petrolifero, visto che da lì transita gran parte del greggio del Golfo, il 20% dell’intera produzione globale. Ciò senza contare le possibili conseguenze per la produzione iraniana, pari a 3,3 milioni di barili al giorno (circa il 3% dell’offerta) e la presenza, nella regione, di una fitta rete di cavi sottomarini che convogliano dati e comunicazione fra Asia ed Europa.
Le incertezze sul ritorno alla normalità crescono e vi sono aziende europee che organizzano già le spedizioni in vista del prossimo Natale per non dover affrontare un caos logistico simile a quello creatosi con la fine della pandemia, e soprattutto per non dover fare i conti con una penuria di container. Quale che sia l’evoluzione della crisi del Mar Rosso, in cui si inserisce l’inatteso riavvicinamento «diplomatico» fra Arabia Saudita e Iran, i costi sembrano comunque destinati ad aumentare per tutti gli attori coinvolti, incluse le nostre imprese, gettando un’ombra di dubbio su certe previsioni.