Nel mondo la disoccupazione fa marcia indietro

LUGANO - Si è molto diffusa in questi anni la percezione di un aumento della disoccupazione. In articoli e analisi sui media, ma anche nelle discussioni di ogni giorno sul lavoro o al bar, emergono spesso affermazioni su un aumento dei senza lavoro. Questa percezione, probabilmente spinta non poco anche dai timori suscitati dai riflessi delle nuove tecnologie sui posti di lavoro, è presente in molti Paesi. Ma è davvero così, c’è stato in questi anni un incremento della disoccupazione? In realtà, per quel che riguarda la media annua dei Paesi sviluppati, nella gran parte dei casi non è stato così.
È interessante vedere i dati dal 2010 al 2018. Nel 2010 infatti si è scaricata sui mercati del lavoro l’onda della crisi finanziaria ed economica del 2008-2009, alzando il livello della disoccupazione. Dall’anno successivo, cioè dal 2011, hanno però cominciato a farsi sentire gli effetti della ripresa economica internazionale e i tassi di disoccupazione hanno iniziato una discesa che è durata sino ad ora. Bisognerà naturalmente vedere quali saranno nella prossima fase i riflessi sui mercati del lavoro del rallentamento economico internazionale che è ora in corso, ma è indubbio che dal 2010 sino a questo inizio di 2019 la disoccupazione nel complesso non è aumentata ed è anzi diminuita in modo consistente.
L’Outlook del Fondo monetario internazionale (FMI) sull’economia mondiale, pubblicato nell’ottobre scorso, fornisce anche una fotografia dell’andamento della disoccupazione media annua nelle economie avanzate, cioè nei Paesi sviluppati. Per il 2018 si tratta di previsioni ma, essendo queste previsioni basate già sui dati effettivi di buona parte dell’anno, le variazioni rispettivo al consuntivo finale non sono grandi. In ogni caso, è chiaramente visibile la tendenza alla diminuzione della disoccupazione.
Nel complesso, le economie avanzate sono passate da una disoccupazione media annua dell’8,3% nel 2010 ad una del 5,6% nel 2017 e del 5,2% nel 2018. Guardando ad alcune tra le aree economiche principali, si può vedere come ad esempio gli Stati Uniti siano passati dal 9,6% del 2010 al 4,4% del 2017 e al 3,8% del 2018. In Canada la disoccupazione è scesa dall’8% del 2010 al 6,3% del 2017 e al 6,1% del 2018. In Giappone si è passati dal 5,1% del 2010 al 2,9% sia per il 2017 che per il 2018. Nell’Eurozona il tasso di senza lavoro era al 10,2% nel 2010 ed era al 9,1% nel 2017 e all’8,3% nel 2018. Nel Regno Unito si era al 7,9% nel 2010 e si è passati al 4,4% del 2017 e al 4,1% del 2018. In Svizzera il tasso di disoccupazione era al 3,5% nel 2010 ed è sceso al 3,2% nel 2017 e al 2,8% nel 2018 (dato SECO a consuntivo finale: 2,6%).
All’interno dell’Eurozona alcuni Paesi hanno ridotto in modo più marcato la disoccupazione. La Germania ad esempio è passata dal 6,9% del 2010 al 3,8% del 2017 e al 3,5% del 2018. L’Olanda è scesa dal 5% del 2010 al 4,9% del 2017 e al 3,9% del 2018. Altri Paesi hanno ridotto la disoccupazione ma mantengono un tasso più elevato della media. La Francia ad esempio era al 9,2% nel 2010, al 9,4% nel 2017 e all’8,8% nel 2018. La Spagna era al 19,9% nel 2010, al 17,2% nel 2017 e al 15,6 % nel 2018.
In questo quadro complessivo positivo, di riduzione della disoccupazione, ci sono anche alcuni Paesi che sono andati contro corrente, con aumenti dei senza lavoro nel periodo considerato. L’Italia è passata dall’8,3% del 2010 all’11,3% del 2017 e al 10,8% del 2018. L’Austria era al 4,8% nel 2010, al 5,5% nel 2017 e al 5,2% nel 2018. La Grecia era al 12,7% nel 2010, al 21,5% nel 2017 e al 19,9% nel 2018. Cipro è passata dal 6,3% del 2010 all’11,1% del 2017 e al 9,5% del 2018. Lontano dall’Europa, l’Australia è passata dal 5,2% del 2010 al 5,6% del 2017 e al 5,3% del 2018.
La gran parte dei Paesi sviluppati ha però, come visto, registrato chiare diminuzioni dei tassi di disoccupazione. Una delle obiezioni classiche, che spesso viene fatta, è che queste diminuzioni dei senza lavoro sono state ottenute anche grazie a lavori a tempo parziale oppure precari. Una prima contro obiezione è che è meglio avere un lavoro ridotto che nessun lavoro. Al di là di questo, occorre poi dire che le tematiche del tempo ridotto o del precariato sono complesse, perché c’è bisogno di maggiori dati per misurare l’impatto effettivo di entrambi e perché è necessario distinguere tra impieghi parziali imposti e impieghi parziali liberamente scelti.
Una seconda obiezione classica, in parte collegata alla prima, è che le riduzioni della disoccupazione sono state raggiunte al prezzo di una contrazione dei salari. E qui si può rispondere che nel complesso non è così. Come già indicato su queste colonne (vedi Focus del 18 gennaio scorso) il Global Wage Report 2018 dell’International Labour Organization (ILO) ha indicato per ogni anno tra il 2006 e il 2017 aumenti percentuali in media annua a livello mondiale per i salari reali, cioè per i salari calcolati tenendo conto del rincaro. Si può discutere Paese per Paese se questi aumenti siano sufficienti oppure no, ma non si può affermare che ci sia stata nel complesso una contrazione.

Come si diceva, ora è in corso un rallentamento economico a livello internazionale. Questo rallentamento è in parte fisiologico e in parte determinato da tensioni politico-economiche che comprendono anche capitoli come la guerra dei dazi voluta dall’Amministrazione USA, la Brexit, i contrasti tra il Governo italiano e l’UE, le incertezze legate alle prossime elezioni in Spagna e nell’Unione europea. Per capire meglio i possibili andamenti dei mercati del lavoro sarà naturalmente importante vedere quali dimensioni assumerà nei prossimi mesi questo rallentamento della crescita economica globale. Per ora prevalgono le previsioni di un rallentamento contenuto, mentre le previsioni su una forte caduta o su una recessione internazionale sono minoritarie. Se così fosse, se dunque il rallentamento della crescita non fosse troppo marcato, anche i riflessi negativi sui mercati del lavoro potrebbero essere contenuti. La verifica nella prossima fase.
C’è poi l’altro versante, importante e di lungo periodo, quello delle nuove tecnologie. La storia economica è piena di innovazioni tecnologiche ed è altrettanto piena di naturali timori suscitate da queste. I dati di lungo periodo mostrano però che le tecnologie hanno sì cambiato in profondità il panorama dei mestieri e delle professioni attraverso la cancellazione di alcuni lavori, ma al tempo stesso ne hanno creato di nuovi. Gli stessi dati indicano che nel tempo sono cresciute le tecnologie ma che è cresciuta anche la forza lavoro complessivamente occupata.
Uno studio del World economic forum (WEF) su tecnologie e lavoro in 20 economie sviluppate ed emergenti, pubblicato nel settembre scorso, indica che tra il 2018 e il 2022 andranno persi a causa delle nuove tecnologie 75 milioni di posti di lavoro; nello stesso periodo emergeranno però 133 milioni di nuovi posti di lavoro, con una creazione netta di impieghi pari a 58 milioni. Questo del WEF è uno studio che va contro corrente rispetto a molti altri che indicano invece scenari negativi. Ma non è contro corrente rispetto a quanto visto in passato con altre rivoluzioni tecnologiche che, pur con percorsi a volte complessi, hanno portato comunque alla fine a una maggiore occupazione nel mondo.
Svizzera ancora nei primi posti
Delle 39 economie avanzate prese in considerazione dall’Outlook dello scorso ottobre del Fondo monetario internazionale (FMI), solo 6 avevano nella casella del 2018 una disoccupazione media annua inferiore al 3%. Si trattava di Singapore al 2%, di Macao pure al 2%, della Repubblica Ceca al 2,5%, di Hong Kong al 2,6%, della Svizzera al 2,8%, del Giappone al 2,9%. All’inizio di quest’anno la Segreteria di Stato dell’economia (SECO) ha poi reso noto che la disoccupazione media elvetica nel 2018 era al 2,6% secondo il consuntivo finale.
La Svizzera rimane dunque ben piazzata nella classifica dei senza lavoro, con un tasso di disoccupazione che è tradizionalmente basso e che negli ultimi anni è nuovamente calato. La serie cronologica dal 1996 al 2018, fornita dalla SECO, mostra che nei 23 anni considerati il tasso annuo massimo di disoccupazione è stato il 5,2% (nel 1997) e che il tasso annuo minimo è stato l’1,7% (nel 2001).
Dal 3,5% del 2010, anno in cui in molti Paesi si sono fatti ancora sentire gli effetti della crisi finanziaria ed economica del 2008-2009, il tasso in Svizzera è gradualmente sceso sino al 2,6% del 2018. Nel gennaio di quest’anno il tasso di senza lavoro in Svizzera era secondo la SECO al 2,8%, 0,1 punti in più rispetto a dicembre ma 0,5 punti in meno rispetto a un anno prima.
Prendendo in considerazione la media annua 2018, a livello di cantoni il primato è di Obvaldo, con una disoccupazione dello 0,7%; secondo posto per Uri con lo 0,8%; terzo posto pari merito per Nidvaldo e Appenzello Interno, entrambi con l’1%; quarto posto per i Grigioni, con l’1,3%. I cantoni elvetici con la maggior disoccupazione media nel 2018 sono invece nell’ordine Neuchâtel (4,6%), Ginevra (4,5%), Vaud (3,8%), Giura (3,7%).
Il Ticino si è attestato nel 2018 a una disoccupazione media annua del 3%, in diminuzione rispetto al 3,4% del 2017. Nel gennaio di quest’anno la disoccupazione nel nostro cantone era al 3,5%, in aumento di 0,2 punti rispetto a dicembre ma in discesa di 0,3 punti in rapporto a un anno prima. La tendenza a una graduale riduzione della disoccupazione anche in Ticino negli ultimi dieci anni è sintetizzabile in questi dati, forniti sempre dalla SECO: nel gennaio del 2009 il tasso era del 5,1%, nel gennaio 2018 del 3,8%, nel dicembre 2018 del 3,3%.
Come accade a livello nazionale, pure a livello ticinese ci sono mesi in cui la disoccupazione sale anche se la fase è positiva, in qualche caso soprattutto per via degli effetti stagionali sul mercato del lavoro e in qualche altro soprattutto per le naturali oscillazioni dell’economia. Le tendenze di fase si vedono però in gran parte nella media annuale della disoccupazione, a livello nazionale come a livello cantonale. E nell’ultimo decennio la tendenza di fondo di una riduzione dei senza lavoro è stata chiara anche in Ticino.
Nonostante alcune complessità legate al fatto di essere cantone di frontiera e dunque di avere al suo interno una rilevante forza lavoro frontaliera, il Ticino ha retto e si è avvicinato alla media nazionale più di quanto abbiano fatto altri cantoni.
Ora naturalmente anche il Ticino deve affrontare sia la sfida ravvicinata del rallentamento dell’economia internazionale, sia la sfida di più lungo periodo dell’impatto delle nuove tecnologie sul mercato del lavoro. A queste sfide il cantone arriva però avendo alle spalle anni in cui la disoccupazione nonostante tutto non è aumentata ed è anzi diminuita. Le sfide restano di rilievo, ma si possono ora affrontare senza avere sulle spalle il fardello di una disoccupazione più pesante.