L'analisi storica

Produttività e salari sostenuti dal progresso tecnologico

La Rivoluzione industriale (1798-1850) cambiò i paradigmi dell’economia dei Paesi europei dell’epoca ponendo le basi per una crescita della popolazione che andò di pari passo con il miglioramento dei processi di produzione agricola
Più macchine e meno lavoro umano oggi e in futuro. © CdT/Chiara Zocchetti
Costanza Naguib
21.09.2024 06:00

Gli economisti si sono spesso interessati alla relazione esistente tra l’entità della forza lavoro, la produttività della stessa e i salari guadagnati, nonché a come queste relazioni siano cambiate nel tempo. In Europa, durante la cosiddetta era malthusiana, vale a dire prima della rivoluzione industriale, la crescita demografica era strettamente legata alla stagnazione economica e solo eventi drammatici come la peste del 1348 riuscivano a interrompere questo equilibrio, portando a un aumento dei salari reali dovuto alla drastica riduzione della popolazione.

Con l’avvento della Rivoluzione industriale, invece, la situazione cambiò radicalmente: il progresso tecnologico permise un aumento simultaneo della produttività e della popolazione, segnando l’uscita dalla «trappola malthusiana». Tuttavia, l’impatto di questi cambiamenti non fu uniforme e i Paesi europei sperimentarono percorsi di sviluppo anche molto diversi tra di loro.

In Gran Bretagna, ad esempio, le innovazioni tecnologiche e un’accelerazione della crescita economica nel settore agricolo e industriale permisero di uscire dalla «trappola malthusiana» prima degli altri Paesi. Infatti, secondo Clark (2004), la relazione tra popolazione e salari diventa positiva già verso la metà del XVII secolo. Diverso è il caso dell’Italia. Secondo Malanima (2007), i salari italiani mostrarono una tendenza al ribasso dal tardo Medioevo fino alla fine del XIX secolo. Le epidemie di peste, come quella tra il 1347 e il 1352, causarono una temporanea impennata dei salari reali, seguita da periodi di declino. Solo dopo il 1820 si osserva una correlazione positiva tra popolazione e salari, resa possibile dall’industrializzazione e dalla diffusione dell’elettricità.

Tuttavia, l’Italia non sperimentò lo stesso rapido incremento salariale visto in altre parti d’Europa. Anche dopo l’unità italiana, il reddito pro capite rimase inferiore rispetto al tardo Medioevo e solo verso la fine del XIX secolo si iniziò a vedere una crescita più sostenuta. In generale, la produttività del lavoro italiana subì un declino prolungato fino alla Rivoluzione industriale, con una lenta ripresa iniziata a partire dal XIX secolo.

Il caso svizzero

Quanto al nostro Paese, nonostante la sua popolazione fosse esigua rispetto ai Paesi confinanti, la Svizzera ha storicamente sofferto di sovrappopolazione relativa, ossia le risorse naturali disponibili erano insufficienti per sostenere adeguatamente i suoi abitanti (Bergier, 1984). Questo squilibrio ha condizionato profondamente la crescita economica del Paese. Durante l’era preindustriale, infatti, la Svizzera faticava a sviluppare una produttività agricola sufficiente, pertanto i salari restavano bassi. A partire dal XVIII secolo, la crescita demografica iniziò a superare il tasso del 5 per mille, salendo all’8,16 per mille durante gli anni della Rivoluzione industriale (1798-1850). Questo aumento della popolazione, sebbene accompagnato da un progresso tecnologico, non fu sufficiente a controbilanciare l’effetto depressivo sui salari esercitato dall’abbondanza di manodopera.

Sovrappopolazione e reddito

Le carestie e le epidemie, come quelle che colpirono la Svizzera tra il XIV e il XVII secolo, ebbero un impatto devastante sulla popolazione, ma anche un effetto positivo sui salari per coloro che sopravvissero, grazie alla riduzione della forza lavoro disponibile. La peste nera del 1349, ad esempio, decimò circa un terzo della popolazione svizzera, ma portò a un temporaneo miglioramento delle condizioni economiche per i superstiti. Tuttavia, il ristagno e la depressione economica continuarono a caratterizzare la Svizzera per gran parte del XVII secolo, periodo in cui il Paese si trovò in una posizione «eccentrica» rispetto alle tendenze europee generali di crescita economica.

Nel corso del XVIII secolo, però, si verificarono alcuni cambiamenti positivi. La scomparsa della peste, la diversificazione del settore agricolo e lo sviluppo della proto industria favorirono una crescita economica moderata. La produttività agricola aumentò, sebbene in modo lento e irregolare, con innovazioni come le rotazioni delle colture nel campo agricolo e l’introduzione di attrezzi e concimi che permisero un miglioramento delle rese dei terreni. Tuttavia, la vera svolta arrivò solo con la Rivoluzione industriale, quando i salari reali iniziarono a mostrare una tendenza crescente. A partire dal 1860, si registrò un incremento del salario reale medio del 35%, più che sufficiente a compensare l’aumento dei prezzi dei beni di consumo, come rilevato da Guzzi–Heeb (1999).

Nonostante questi miglioramenti, la Svizzera continuò a sperimentare momenti di difficoltà economica, come la crisi di sovrapproduzione agricola degli anni 1870-75, che portò a una brusca caduta dei prezzi agricoli e a un esodo massiccio di lavoratori dall’agricoltura verso altri settori. Solo nel XIX secolo, infine, anche la Svizzera iniziò a beneficiare della modernizzazione industriale, anche se il progresso fu spesso più lento.

In conclusione, la Svizzera, come altri Paesi europei, ha attraversato un lungo e complesso processo di trasformazione economica e demografica, che l’ha portata dalla stagnazione dell’era malthusiana alla crescita sostenuta della Rivoluzione Industriale. Tuttavia, il suo percorso è stato caratterizzato da sfide legate alla sovrappopolazione relativa e alle limitate risorse naturali, che hanno reso il progresso economico più difficile rispetto ad altre nazioni come la Gran Bretagna.