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Quel mito dell’avanzo primario

L’errore di basarsi su un saldo tra entrate e uscite pubbliche che non tiene conto degli interessi da pagare - In molti Paesi occorre una riduzione del debito e le cifre dell’Italia confermano nuovamente questa realtà
(foto Maffi)
Lino Terlizzi
Lino Terlizzi
10.01.2019 19:37

Avanzo primario, chi è costui? La domanda è legittima, soprattutto per i non addetti ai lavori che vedono il soggetto ormai massicciamente presente nelle cronache economiche e ne possono forse supporre l’identità grazie a indizi, senza però averne certezza. Sciogliamo allora ogni dubbio, prendendo il discorso dall’inizio. Il saldo primario nel bilancio di uno Stato è la differenza tra le entrate e le uscite pubbliche, escluse le spese per interessi sul debito. Quando le entrate superano le uscite, sempre senza contare gli interessi passivi, si ha un saldo primario positivo, cioè un avanzo primario. Quando al contrario le uscite superano le entrate, sempre al netto degli interessi, si ha invece un saldo primario negativo, cioè un disavanzo primario.

Ma perché mai si dovrebbero seguire tutte queste spiegazioni così tecniche? Perché appunto il tecnicissimo avanzo primario è entrato prepotentemente nelle cronache, lo si incontra nei media e anche nelle discussioni sul lavoro o tra conoscenti, e allora occorre a maggior ragione capire bene di cosa si tratta. “Ma noi abbiamo un avanzo primario”, in particolare, è diventata una frase diffusa a ogni livello nei Paesi che hanno alti debiti e deficit pubblici. In sostanza è come dire: sarà anche vero che i conti pubblici del nostro Paese non sono in ordine, ma stiamo meglio di come i nostri critici dicono, perché se non si contano gli interessi passivi da pagare il nostro bilancio pubblico è in attivo.

In realtà, l’avanzo primario è un passaggio intermedio nel bilancio, non ne è il dato caratterizzante. Se c’è un avanzo anziché un disavanzo primario è meglio, certo. Ma quella che conta davvero è la riga finale del bilancio, quella dove c’è l’avanzo o il disavanzo complessivo, comprendendo anche gli interessi da pagare. Per lo Stato, almeno da questo punto di vista, è come per un’impresa o per una famiglia: quello che importa è il bilancio complessivo, nel quale bisogna conteggiare naturalmente anche gli interessi passivi sui debiti che eventualmente si hanno.

Il discorso dell’avanzo primario sta insomma diventando in molte situazioni un elemento per giustificare, implicitamente o esplicitamente, la insufficiente o mancata riduzione di deficit e debiti pubblici. Il caso dell’Italia è su questo versante tra i più emblematici. Recentemente un ampio studio su questi temi curato da Roberto Poli, consulente economico di primo piano ed ex presidente dell’ENI, è stato ripreso da “Il Sole 24 Ore”. Con ogni probabilità l’intento dell’autore dello studio non era quello di promuovere tutte le politiche sui conti pubblici attuate dai Governi italiani dal 1993 ad oggi. Ma citiamo questa analisi perché è ricca di dati e perché è tra quelle ora utilizzate da sostenitori del mito dell’avanzo primario. Dallo studio emerge che tra il 1993 e il 2017 l’Italia ha registrato un avanzo primario cumulato pari a 676 miliardi di euro; nello stesso arco di tempo la Germania ha realizzato un avanzo primario inferiore, pari a 307 miliardi di euro; la Francia ha registrato invece un disavanzo primario di 618 miliardi di euro e la Spagna a sua volta ha avuto un disavanzo primario di 359 miliardi di euro. Se ci si ferma a questa riga dell’analisi, l’Italia risulta quindi come il Paese più virtuoso tra i quattro maggiori dell’Eurozona. Ma ha senso fermarsi a questa parte del bilancio? Evidentemente no, le cifre citate sin qui ci raccontano solo il primo tempo della partita, quello che conta è invece il risultato finale, al termine del secondo tempo. Lo stesso studio infatti indica che tra il 1993 e il 2017 l’Italia a causa del suo rilevante debito ha pagato interessi per 1.924 miliardi di euro; la Germania ne ha pagati per 1.213 miliardi di euro, la Francia per 1.043 miliardi di euro, la Spagna per 517 miliardi di euro. Se si tiene conto di questi interessi negativi, l’Italia come si vede è ben lungi, purtroppo, dall’essere il Paese più virtuoso nei conti pubblici, al contrario.

Una delle osservazioni possibili è che tutto va comunque misurato in rapporto alle dimensioni delle economie, dunque ai rispettivi Prodotti interni lordi. Usciamo dunque dallo studio citato e prendiamo i dati dell’analisi del Fondo monetario internazionale sul rapporto deficit pubblico/PIL tra il 2010 e il 2017. Nel periodo considerato l’Italia è passata da un deficit del 4,2% ad uno del 2,3%: la Germania è passata da un deficit del 4,2% ad un avanzo complessivo dell’1%; la Francia da un deficit del 6,9% ad uno del 2,6%; la Spagna da un deficit del 9,4% ad uno del 3,1%. Come si vede, di nuovo, l’avanzo primario purtroppo non basta a rendere virtuosi: è giusto puntare ad averlo, ma occorre anche e soprattutto ridurre il debito e quindi la spesa per interessi.

Che l’elevato indebitamento pubblico rimanga un tasto dolente per l’Italia è mostrato anche dai dati dell’FMI sul rapporto debito pubblico/PIL. In Italia questo è aumentato dal 115,4% del 2010 al 131,8% del 2017; in Germania nello stesso periodo è sceso dall’80,9% al 63,9%; in Francia è passato dall’85,3% al 96,8%; in Spagna è passato dal 60,1% al 98,4%. Come si vede, l’unico Paese tra i quattro maggiori dell’Eurozona ad aver ridotto l’indebitamento (passando anche a un surplus) è la Germania. Gli altri tre Paesi leader lo hanno tutti aumentato e l’Italia mantiene il poco invidiabile secondo posto per debito pubblico/PIL più alto tra i 19 Paesi dell’area euro, preceduta dalla sola Grecia. Con un 3,8% di spesa per interessi in rapporto al PIL nel 2017, l’Italia ha peraltro l’ancor meno invidiabile primo posto (insieme al Portogallo, dati Commissione europea) negli oneri per il debito pubblico. Affermare, come spesso viene fatto in questa fase, che avere un avanzo primario significa in sé praticare pienamente l’austerità (meglio peraltro sarebbe dire il rigore, concetto più completo) è dunque sbagliato. L’avanzo primario è uno dei fattori che contribuiscono a conti pubblici in ordine, ma se un Paese ha un indebitamento molto elevato, ebbene occorre anche e soprattutto ridurre gradualmente il debito, in particolare attraverso tagli alle spese pubbliche improduttive. Altrimenti l’effetto positivo dell’avanzo primario viene vanificato. A fine 2017, 24 Paesi su 28 dell’Unione europea avevano un avanzo primario, ma solo 12 avevano un avanzo complessivo nel bilancio pubblico (dati Eurostat). Ciò significa che ben 12 Paesi UE si sono fatti “mangiare” l’avanzo primario dagli interessi sul debito, finendo in deficit (per il caso italiano, vedi la tabella in pagina). Una riprova della necessità di ridurre il debito.

Nei giorni scorsi in Italia c’è stato un altro episodio di questa serie. L’Istat ha reso noto che nel terzo trimestre 2018 la spesa per interessi sul debito pubblico è salita di circa 1,7 miliardi di euro rispetto a un anno prima (è l’effetto combinato del debito alto e dell’aumento dello spread); questo incremento degli interessi ha quasi interamente cancellato l’aumento dell’avanzo primario. Ancora una volta, bisogna dire che Il rigore è necessario anche e soprattutto nella riduzione del debito e quindi degli interessi da pagare su questo. E un equilibrato rigore, vale la pena ricordarlo, permette di sottrarre risorse al debito destinandole alla crescita economica. I Paesi che praticano realmente il rigore sono quelli, dati alla mano, che nel lungo periodo hanno crescite economiche più solide.