Se più offerta fa salire il prezzo: le strategie dell'OPEC+ al bivio
La compattezza dei membri OPEC+ in termini di aderenza alle quote di produzione fissate è ancora messa alla prova. Ora, a essere tacciati di sovrapproduzione, sono soprattutto Kazakhstan ed Iraq. Più sfumata la posizione della Russia, il cui petrolio è sottoposto alle sanzioni di USA e Unione europea e le cui transazioni sono meno trasparenti. Il suo greggio viene trasportato attraverso una «flotta fantasma», con operazioni di trasbordo e mixaggio in Paesi terzi, il tutto talvolta in quantità leggermente superiore alla quota concordata.
Nella riunione dello scorso 5 dicembre si è deciso il rinvio del programma di aumento graduale della produzione all’aprile 2025, mantenendo i tagli, che sono al momento pari a 5,85 milioni di barili giornalieri (5,7% della domanda globale), suddivisi in diverse tranche, di cui alcune a base volontaria, fino a dicembre 2026. Intanto, l’ultimo rapporto mensile dell’Organizzazione prevede una crescita della domanda globale per il 2024 di 1,61 milioni di barili giornalieri, rispetto agli 1,82 milioni previsti in precedenza, ed un aumento di 1,45 milioni di barili per il 2025 rispetto agli 1,54 milioni attesi lo scorso mese.
Ma il tema dominante è il possibile abbandono da parte di Riyadh della strategia di sostegno del prezzo, il cui riferimento attuale, non ufficiale, è di 100 dollari al barile, che rappresenta indicativamente un punto di equilibrio del suo budget fiscale, alla luce degli enormi investimenti legati, fra l’altro, ai progetti Vision 2030 e NEOM.
Per il 2025, secondo un rapporto del Fondo monetario internazionale, tale livello di equilibrio sarebbe di 96,20 dollari al barile. Il Paese sta diversificando la propria economia, ma la stessa OPEC ha più volte evidenziato come il ruolo delle energie alternative sia sovrastimato (si veda la crisi dell’auto elettrica in Occidente), come le energie alternative stesse dipendano in parte da quelle tradizionali, ad esempio per le reti di distribuzione elettrica, e come l’industria petrolifera sia destinata a detenere un ruolo essenziale anche per il futuro.
I sauditi e la strategia «100»
Secondo un annuncio del «Financial Times», Riyadh starebbe per abbandonare la sua tradizionale strategia «100» e si appresterebbe ad aumentare la produzione nel 2025. Ma per alcuni operatori questo «rumor» costituisce solo un invito ai partner sovrapproduttori a essere più disciplinati, visto che sono i sauditi a sostenere maggiormente l’effetto dei tagli. Secondo altri, gli aumenti di produzione a breve termine, propugnati da alcuni membri, rappresenterebbero il tassello di una strategia più sofisticata, volta a operare tagli successivi, accrescendo il potere di condizionamento dell’Organizzazione e la capacità di Riyadh di mantenere quote di mercato.
Lo sconvolgimento siriano
Le strategie OPEC+ vanno poi considerate anche alla luce della nuova situazione creatasi in Siria, con l’avvento al potere del gruppo islamista Hayat Tahrir al-Sham (Gruppo per la liberazione del Levante) e le possibili ripercussioni sugli altri attori dello scenario regionale e del mercato petrolifero, dall’Iran alla Russia, dall’Iraq alla Turchia. Un altro aspetto concerne le ripercussioni delle scelte OPEC+ sull’industria dello shale oil statunitense, che ha contribuito nel 2024 all’incremento dell’offerta, insieme alla produzione dell’Africa Occidentale, e a cui l’Amministrazione repubblicana intende dare nuovo impulso. Ci si attende inoltre che Trump inasprisca le sanzioni petrolifere nei confronti dell’Iran, che mantiene un elevato livello di export verso i Paesi asiatici, mentre Joe Biden, nell’uscire di scena, potrebbe prendere iniziative punitive verso la «flotta fantasma» usata da Mosca. La strategia saudita del mantenimento delle quote di mercato, anche attraverso l’abbandono (temporaneo) del sostegno al prezzo, ha però un importante precedente nelle vicende del 2014. Quale risposta alla nascente industria dello shale oil USA, l’OPEC inondò il mercato di milioni di barili di greggio addizionale. Ciò causò un eccesso di offerta stimato in circa 8 milioni di barili giornalieri che determinò un collasso del prezzo (da 112 a 36 dollari al barile), nei due anni successivi oltre 200 società americane fallirono, lasciando un’ombra indelebile, che ancora permane, nei rapporti fra quell’industria e Wall Street.