Mercati

Sfuma l’euforia per i titoli tecnologici e le Borse crollano

È proseguita ieri la corsa al ribasso dei listini azionari mondiali, su cui primeggia Tokyo che è scesa sotto il livello di inizio anno - Il franco svizzero si conferma bene rifugio, non così il Bitcoin che in una settimana ha perso il 30%
La Borsa di Tokyo ha perso ieri quasi il 13%. © EPA/Kimimasa Mayama
Dimitri Loringett
06.08.2024 06:00

Avevamo chiuso la settimana, venerdì scorso, con un «sell-off» delle Borse che si spiegava sostanzialmente con le incertezze relative alla tenuta dell’economia USA, tra disoccupazione in lieve aumento - aumento peraltro atteso, ma storicamente ancora su livelli bassi - e mutati scenari nella campagna per le presidenziali. Spesso accade che, dopo simili scossoni, i mercati si riprendano («rebound»), ma ieri le vendite sui listini azionari sono proseguite. A partire da quelli asiatici, con l’indice giapponese Nikkei 225 che ha lasciato sul terreno quasi il 13%, chiudendo a quota 31.458 e «bruciando» i guadagni dell’anno in corso (a inizio gennaio era infatti a 33.331 punti): si tratta del più importante calo giornaliero dai tempi dello storico «Black Monday» del 19 ottobre 1987.

I ribassi sulle piazze europee sono stati, in confronto, più contenuti, ma comunque consistenti: a Zurigo lo SMI ha ceduto il 2,8% (venerdì scorso aveva già perso oltre il 3%); a Francoforte il DAX ha chiuso con un -1,95%; a Milano il Ftse-MIB è sceso del 2,27%; a Parigi il CAC 40 ha ceduto l’1,42%; e a Londra il Ftse-100 ha chiuso con un -2,04%. E ancora peggio ha fatto infine Wall Street: l’indice Dow Jones ha chiuso con un -2,6% (cedendo oltre mille punti), il Nasdaq con un- 3,43% e lo S&P 500 con un -3%.

Si sgonfia il «Big Tech hype»

Al netto dei timori macroeconomici negli Stati Uniti e della sempre più fragile situazione geopolitica in Medio Oriente, il sospetto è che dietro il crollo delle Borse ci sia dell’altro. «Il mercato ci sta dicendo che il “momentum” degli attuali “pesi massimi” sui listini, ovvero i titoli Big Tech quali Nvidia, Microsoft, Apple, Amazon, Alphabet (Google) e Meta, si sta esaurendo perché ci si è resi conto che l’“hype” per l’intelligenza artificiale si è spinto troppo in là rispetto a quanto aziende e consumatori siano disposti realmente a spendere in prodotti e servizi con IA», commenta Roberto Malnati, analista finanziario di Royalfid SA.

Il riferimento dell’analista è rivolto in particolare al titolo Nvidia, che nel giro di un anno o poco più è passato dall’essere un titolo tecnologico come molti altri a uno che domina letteralmente i listini. Le performance e le cifre sono impressionanti: in dodici mesi il prezzo è salito del 250% (da 40 a 140 dollari) e la capitalizzazione di mercato ha superato i 3 mila miliardi. «Nvidia “pesa” nel super-indice S&P 500 attorno al 6%, capitalizza oltre 30 volte il fatturato e il suo rapporto prezzo/utili è circa 60, mentre in media nello S&P 500 il rapporto si situa tra 20 e 25», spiega Malnati, che osserva come il 20% del super-indice americano sia rappresentato da «appena» quattro titoli: Apple (le cui quotazioni sono scese anche a causa delle vendite effettuate nei giorni scorsi da parte di Warren Buffet, che ha dimezzato la relativa posizione in portafoglio), Amazon, Nvidia e Microsoft. «L’alleggerimento delle posizioni in questi titoli - continua l’analista - ha quale effetto “naturale” quello di trascinare l’intero listino, un effetto amplificato dalla loro presenza significativa nei principali ETF (Exchange Traded Funds, ndr)».

Tornando alla questione dell’IA, Roberto Malnati spiega come essa «non abbia attualmente una redditività sostenibile. Gli investimenti da decine di miliardi di dollari fatti in queste tecnologie da società come Microsoft non si tramutano in fatturato e utili. Gli utenti, potenziali o effettivi che siano, non vedono ancora lo scopo di pagare per servizi di IA, tanto più che potrebbero, nel loro immaginario, rendere obsoleti i propri posti di lavoro».

La situazione ricorda quella vissuta agli inizi degli anni Duemila, quando sui mercati dominavano le società della «new economy», che venivano valutate non sul fatturato bensì sul numero di utenti - un fenomeno che sfociò poi nello scoppio della bolla delle famigerate «dot-com». Ancora Malnati: «Le società del Big Tech sono giganti fragili e bastano voci sul fatto che un loro prodotto abbia un problema significativo per creare un effetto valanga su tutto il settore» - e, come in questa fase, su tutto il mercato. È proprio il caso di Nvidia, sotto pressione in seguito a voci secondo cui i prossimi chip per l’IA dell’azienda saranno ritardati a causa di difetti di progettazione.

La corsa ai beni rifugio...

Le turbolenze borsistiche hanno fatto scattare la classica corsa verso beni rifugio, in particolare verso il franco svizzero, che nei confronti dell’euro è salito ieri sino a quota 0,9210, a fronte dei quasi 0,94 franchi di venerdì: si tratta del valore più alto registrato dal 15 gennaio 2015, giorno in cui la Banca nazionale svizzera (BNS) abolì la soglia minima di 1,20 e l’euro precipitò sino a 0,8423 franchi.

Ieri la valuta elvetica si è rafforzata anche sul dollaro, che è peraltro pure considerato un bene rifugio: il biglietto verde è calato sino a 0,8432 franchi, non lontano dal valore minimo dell’anno di 0,8357.

...ma non all’oro e al Bitcoin

Un bene rifugio per eccellenza non si è dimostrato tale, perlomeno nella seduta di ieri: le quotazioni dell’oro sono infatti arrivate a cedere il 3,2%, a 2.390 dollari l’oncia. In sostanza, gli investitori avrebbero liquidato le posizioni nel metallo giallo per coprire le perdite sui titoli azionari. In serata il prezzo dell'oro è risalito poco sopra la soglia dei 2.400 dollari l'oncia (circa 65.930 franchi al chilo).

Spettacolare e per certi versi inaspettato è invece il crollo del Bitcoin, che nel giro di appena una settimana ha perso quasi il 30% del suo valore, passando da quota 70 mila dollari di una settimana fa a 49.453 ieri in giornata, per poi risalire in serata attorno a quota 54.125. «Se si guarda al numero di transazioni effettuate con Bitcoin al di fuori del suo accumulo (perché considerato una riserva di valore), è di molto inferiore rispetto a quello dell’uso per cui è nato, ovvero come criptovaluta e sistema di pagamento valutario internazionale svincolato dal sistema finanziario tradizionale», commenta Malnati. «Il Bitcoin - conclude - è invece diventato un prodotto finanziario sistemico a tutti gli effetti. L’idea che si era diffusa finora secondo cui il Bitcoin fosse decorrelato dai mercati e andasse comprato come protezione per quando i mercati scendono non è più ragionevole, quindi».