Spettro della stagflazione: banche centrali all’angolo

Prima la pandemia, poi i blocchi alle catene degli approvvigionamenti e la comparsa dell’inflazione. Ora lo scoppio del conflitto nell’Est Europa. Una situazione che comincia a diventare scomoda per le banche centrali occidentali.
Da una parte infatti con l’emergenza sanitaria (e prima ancora con la crisi finanziaria) si è giustificato un decennio di politiche monetarie ultra espansive che vanno normalizzate. Dall’altra la guerra tra Russa e Ucraina fa temere per la crescita economica, che già a fine del 2021 stava mandando segnali di rallentamento per la ripresa post-pandemia. Mentre le banche centrali devono decidere se lasciar correre ancora l’inflazione, con il caro energia già alle stelle, oppure alzare i tassi, frenando ulteriormente l’economia, per gli economisti c’è soprattutto uno spettro che diventa più consistente: quello della stagflazione. Stagflazione è quando contemporaneamente si verifica una stagnazione economica e l’inflazione, come accadde nel 1973 dopo lo shock del petrolio. Una situazione finora ritenuta alquanto improbabile ai giorni nostri.
Europa peggio degli USA
Da una parte l’inflazione non può più essere definita transitoria. Lo ha riconosciuto persino la banca centrale europea nei suoi verbali di febbraio, dopo che per un anno aveva definito il carovita un fenomeno di passaggio. Secondo i dati di Eurostat il mese scorso l’inflazione dell’Eurozona è salita al livello record di 5,8%. Negli Stati Uniti in gennaio il livello era del 7,5%.
Dall’altra c’è la questione della crescita economica. «L’economia della zona euro - spiega Nikolay Markov, economista della Pictet Asset Management - è più esposta rispetto a quella americana alla guerra in Ucraina. Stimiamo che nel Vecchio continente con un rialzo del prezzo del petrolio del 40% da inizio 2020 la crescita scenderà dello 0,7%. Questo significa un prezzo del Brent a 110 dollari, e ci siamo già. A livello globale il calo del PIL sarà dello 0,4% e negli USA dello 0%. E non c’è solo la questione del petrolio, ma la frenata degli investimenti e dei consumi. Quindi in Europa siamo confrontati con uno «shock stagflazionista», ossia un aumento dei prezzi con una rallentamento della crescita. Secondo le nostre stime, a livello globale un aumento del 40% del prezzo del petrolio provoca un aumento almeno dell’1% dell’inflazione».
Incertezza sulla guerra
Come sottolinea Martin Neff, capoeconomista di Raiffeisen, per molti economisti il conflitto dovrebbe avere poche ripercussioni sulla crescita globale. Tanto più che l’industria bellica normalmente giova all’economia. «Tuttavia in Europa ora predomina la paura. Che è fatale agli investimenti e quindi alla congiuntura. Se la guerra non dovesse finire in fretta il rischio di stagflazione, che per ora non è il nostro scenario principale, salirà sensibilmente».
In attesa delle banche centrali
Settimana prossima ci sarà la riunione direttiva della BCE, che fino a dieci giorni fa si pensava avrebbe annunciato tempistica e ampiezza dei futuri rialzi dei tassi. Ma ora? «Rispetto alla Fed - illustra Markov - la BCE è confrontata con rischi più grandi. L’Eurozona con i prezzi energetici alle stelle e i blocchi negli approvvigionamenti affronta uno shock dell’offerta. In questi casi, come nella crisi pandemica, è meglio non alzare i tassi, tollerando un tasso di inflazione un po’ più alto. Questo ritarda lo scenario di normalizzazione dei tassi. Noi prevediamo una politica accomodante per tutto il 2022». Per Markov nel 2022 la BCE non dovrebbe aumentare i tassi: «a condizione che non ci sia un aumento più forte dei prezzi energetici e che i salari non salgano. L’Eurotower preferirà spingere l’economia piuttosto che fermare l’inflazione. Ma questo provocherà molte critiche, per esempio dalla Bundesbank, che è contraria a questa politica e spinge per una normalizzazione dei tassi».
Secondo Neff invece, le prospettive per quest’anno nell’Eurozona sono tutt’altro che rosee e i mercati, che finora hanno reagito senza grandi scossoni alla guerra tra Russia e Ucraina, stanno sottostimando il rischio di brutte sorprese. «Settimana prossima Lagarde non dirà molto. Probabilmente sottolineerà il fatto che il programma di acquisto titoli, ancora in funzione, andrà terminato prima di rialzare i tassi. Guadagnerà così due o tre mesi di tempo fino alla pausa estiva. Anche sperando che il conflitto non degeneri ulteriormente, l’inflazione resterà alta e quindi al più tardi in autunno dovrà agire. Il rischio è che alla fine agirà troppo tardi, in modo ancora più doloroso per i mercati».
Fed e i desiderata del mercato
Negli ultimi dieci giorni le scommesse del mercato sui rialzi dei tassi da parte della Fed sono crollate. Si anticipa cioè una politica monetaria molto più accomodante di quella prevista fino a due settimane fa. «Negli Stati Uniti - afferma Markov - l’impatto sull’economia della guerra è inferiore, e quindi non cambia lo scenario di base. Per questo ci aspettiamo per quest’anno 4 aumenti dei tassi dello 0,25%, uno ogni trimestre a partire da marzo. I rischi sull’attività economica sono in aumento a livello globale, soprattutto per le catene logistiche, il che tocca anche i metalli, gli alimentari, i metalli preziosi, le auto, le componenti, e via dicendo. Stiamo rivivendo un po’ lo shock della crisi COVID».
Secondo Neff invece la Fed partirà con un rialzo da 50 punti base e in tutto l’anno ne effettuerà cinque. «Non c’è alternativa se vuole mantenere una parvenza di indipendenza, senza correre sempre dietro ai desiderata del mercato. L’energia è alle stelle e i rialzi dei salari pure. Non si può più fare finta di nulla».
E la BNS?
Secondo Markov la BNS ora ha un compito difficile: il franco è forte e ieri ha praticamente toccato la parità con l’euro. «Questo attenua parzialmente l’inflazione, ma l’obiettivo del 2% è già stato superato (2,2% in febbraio) e forse ci sarà un picco del 2,5% nei prossimi mesi. Noi riteniamo che la BNS avrà un approccio prudente e non dovrebbe normalizzare i tassi, anche perché non vuole rafforzare ulteriormente il franco».