Gli scenari

Tra stagflazione e bassa crescita

La geopolitica e le scelte della Casa Bianca continueranno a influenzare gli orizzonti macroeconomici - Oro e obbligazioni indicizzate per difendere il proprio portafoglio d’investimenti da politiche economiche inflattive
Il picco dell’inflazione negli Stati Uniti si è raggiunto nell’estate del 2022. © Reuters
Generoso Chiaradonna
06.02.2025 06:00

A pesare sul prosieguo dell’anno finanziario è ancora una volta l’incognita della politica protezionista statunitense inaugurata per la seconda volta dal presidente Donald Trump. «Sarà capace il neo segretario al Tesoro Scott Bessent - che conosco bene da 30 anni - di arginare l’irruenza di Trump sul commercio internazionale?», si chiede Antonio Foglia, economista e vicepresidente della Banca del Ceresio. L’auspicio è che la risposta sia positiva anche perché le scelte statunitensi in questo ambito potrebbero determinare diversi scenari macroeconomici. Oltre a ciò, anche la geopolitica giocherà un ruolo di primo piano, dal conflitto russo-ucraino a quello mediorientale, sugli scenari d’investimento. «È un momento storico particolare nel quale il mondo occidentale ha i nemici giusti, da Putin a Xi Jinping passando per Khamenei e Kim Jong-un», continua Foglia chiedendosi però se Trump, il leader del mondo libero, li considera tali.

Ancora una volta, però, saranno gli scenari macroeconomici a determinare le scelte d’investimento. «L’inflazione è quasi rientrata nei ranghi ovunque, dopo la fiammata tra il 2022 e il 2023 causata più dal lato dell’offerta che dall’accresciuta domanda. Si può quindi dire a posteriori che i banchieri centrali avevano ragione quando nel 2021, nella seconda fase della pandemia da COVID-19, affermavano che l’aumento dei prezzi era da considerarsi provvisorio», spiega ancora il vicepresidente di Banca del Ceresio. Detto ciò, a seconda di uno dei quattro scenari possibili (stagflazione; recessione; alta crescita nominale e buona crescita con bassa inflazione) ci sono altrettanti possibilità di asset allocation. Fermo restando che una recessione e un ritorno della fiammata inflazionistica sono i meno probabili, è meglio concentrarsi sugli altri due: stagflazione e crescita con bassa inflazione. «Le barriere doganali e i dazi di solito sono forieri di un aumento dei prezzi per le economie che le applicano e di un rallentamento del PIL per quelle che li subiscono», continua Antonio Foglia. Nel primo caso - la stagflazione, per intenderci - tendono a fare meglio oro, liquidità e obbligazioni indicizzate all’inflazione. «Azioni, obbligazioni pubbliche nominali e quelle aziendali sono, infatti, correlate positivamente e tendono a diminuire di valore in questo contesto. E nel quarto scenario, quello con bassa crescita dell’inflazione? Vale il discorso eguale e contrario. «Non conviene investire in oro, ma in azioni e obbligazioni pubbliche e private che sono correlate positivamente e tendono entrambe a crescere in uno scenario simile», spiega il banchiere luganese che getta un occhio anche sul lungo termine. «La crescita economica dipende dall’evoluzione dei fattori di produzione: la forza lavoro e la sua produttività. La prima è desumibile della struttura demografica che in Europa e in Cina, ma non negli USA, tende a invecchiare velocemente. La seconda è più difficile da misurare e può variare a dipendenza dell’impatto dell’innovazione tecnologica e del degrado dei sistemi-Paese. Negli ultimi trent’anni è cresciuta di circa l’1% l’anno e difficilmente si andrà oltre anche in futuro. Nell’immediato, comunque, il consenso degli economisti è benigno con l’inflazione core tra Stati Uniti ed Europa che rimarrà sotto al 3% per i prossimi due anni e la crescita del PIL, sempre a livello USA ed Eurozona, superiore al 2% come anche la disoccupazione che rimarrà contenuta.

Tra «brown» e «green»

Infine uno sguardo sugli investimenti che rispettano i criteri ESG (ambiente, società e governance). «Dal nostro punto di vista la regolamentazione degli investimenti green è stata controproducente perché è meglio concentrarsi sulle cosiddette aziende brown che intendono ridurre la loro impronta carbonica rispetto a chi si può legalmente definire green a priori. L’ultima scelta, in ogni caso, spetta all’investitore», conclude Foglia.

Il franco piace molto agli svizzeri

Chi opera sui mercati finanziari internazionali lo sa. I tassi di cambio possono fare la differenza - in negativo e in positivo - rispetto alla performance del titolo acquistato. «Ormai i tassi di cambio non si muovono più per riequilibrare i conti con l’estero», afferma Antonio Foglia. Basta vedere cosa sta succedendo al dollaro americano che si sta rafforzando rispetto a euro e franco svizzero nonostante quella statunitense sia da anni un’economia dal doppio deficit (di bilancio pubblico e commerciale verso l’estero). Foglia porta l’esempio del franco svizzero - dagli esportatori ritenuto troppo caro - che è comprato soprattutto dagli svizzeri e venduto dagli stranieri che fanno carry trade. A prima vista appare una tesi controintuitiva. La narrativa è quella che in periodi di instabilità ci sia una corsa verso il franco ritenuto un bene rifugio. «C’è del vero, ma gran parte dell’apprezzamento del franco è causato dagli investitori istituzionali svizzeri come i fondi pensione che pur avendo investito all’estero oltre 450 miliardi negli ultimi 15 anni, hanno un rischio di cambio di soli 90 miliardi. La loro attività di copertura del rischio valutario, acquistando franchi e vendendo valute estere a termine, ha mantenuto una costante pressione al rialzo sul franco. Da qui l’intervento della BNS che ha venduto franchi e accumulato riserve di valuta estera per frenarne l’apprezzamento».