Un prezzo sulle emissioni per la neutralità climatica
Molti esperti lo ritengono lo strumento più economico ed efficace per combattere il cambiamento climatico. Allo stesso tempo, sempre più operatori finanziari sostengono che si possa fare del trading per il bene dell’ambiente e guadagnarci. In mezzo, c’è un mercato che in vent’anni è cresciuto fino a raggiungere la dimensione attuale di oltre 850 miliardi di euro.
Parliamo di «carbon market», ovvero del mercato delle emissioni di CO2, delle vere e proprie «borse» dove si scambiano le «quote di emissione» di CO2 (che i critici chiamano «permessi per inquinare»), oppure i «carbon credits», i certificati che corrispondono alla riduzione di CO2. Al (complesso) tema dei carbon markets era dedicata la conferenza tenutasi giovedì scorso al Campus Est USI-Supsi (e non al CSVN di Vezia, come erroneamente riportato ieri) e organizzata dall’associazione Swiss Sustainable Finance (SSF) e il Centre for Climate Finance and Sustainability (CCFS) dell’USI, in collaborazione con la Lugano Commodity Trading Association (LCTA).
Mercati «obbligatori»…
Negli anni Ottanta trova origine il concetto di «carbon pricing», ovvero l’assegnazione di un valore di mercato alle emissioni di CO2. Da qui, lo sviluppo – dapprima in Europa, pioniera in questo campo – di meccanismi di «cap and trade» con la creazione delle citate quote di emissione, ciascuna equivalente a una tonnellata di CO2, assegnate alle aziende. Il meccanismo è tutto sommato semplice: le aziende che emettono CO2 sotto il loro limite (cap) possono vendere (trade) le quote in eccesso a quelle che ne emettono oltre. E viceversa. Così facendo, sono incentivate a ridurre le emissioni per risparmiare denaro o per ottenere profitti vendendo le quote in eccesso – e idealmente a investire in nuove tecnologie o sistemi di produzione più sostenibili. Il costo? Attualmente, una quota di emissione di CO2 viene scambiata sull’Emissions Trading System dell’UE (EU ETS) a circa 60 euro.
Gli ETS sono mercati cosiddetti «di conformità» (compliance market), cioè imposti «dall’alto», dai governi che stabiliscono il prezzo del CO2 attraverso leggi o regolamenti e che controllano l’offerta delle quote di emissione. Ma benché maturi ed efficaci, questi sistemi presentano alcune criticità: non coprono, in particolare, le emissioni cosiddette «Scope 3», ovvero quelle indirette sulle quali le aziende non possono intervenire e che sono anche molto più difficili da calcolare perché si trovano all’interno delle catene di valore.
Ecco allora che negli ultimi anni sono nati i cosiddetti «voluntary carbon markets» (VCM), meccanismi facoltativi promossi da organizzazioni private con i quali le aziende possono acquistare i citati certificati di CO2 per compensare le proprie emissioni da altre aziende che investono in attività che le riducono, come ad esempio in progetti di riforestazione o in sistemi innovativi che catturano il CO2.
… e «volontari»
Di VCM si è parlato soprattutto nella prima parte dell’evento, apertosi con l’intervento del professor Eric Nowak, direttore del CCFS all’USI, che ha offerto una prospettiva economica sui carbon markets, dove la parte del leone la fanno tuttora i sistemi ETS (quello dell’UE vale 758 miliardi di euro e rappresenta il 90% dell’intero mercato mondiale), mentre i VCM sono ancora piuttosto marginali (la stima è attorno ai 2 miliardi di dollari).
«Se vogliamo raggiungere l’obiettivo di neutralità climatica entro il 2050, è fondamentale che si possa stabilire il prezzo delle emissioni di CO2», ha affermato il professor Nowak, aggiungendo che i mercati delle emissioni sono molto efficienti e producono risultati tangibili. Un esempio virtuoso viene dalla Svezia, che negli ultimi 25 anni ha ridotto le emissioni del 30%, ma anche dall’UE stessa che sostiene di averle ridotte del 37% da quando ha introdotto il suo ETS nel 2005.
«Ma il carbon trading è solo una componente di un ecosistema più ampio», ha affermato nel suo successivo intervento Margaret Kim, CEO di Gold Standard, la ONG di base a Ginevra specializzata nella certificazione di progetti di sviluppo sostenibile secondo rigorosi standard. Secondo Kim, per il buon funzionamento dei VCM è essenziale che i vari attori facciano la loro parte nella «catena di valore», tra progettisti sul terreno, consulenti e intermediari e, infine, acquirenti dei certificati. «Il sistema non è ancora perfetto e per questo è essenziale avere sia dei quadri di riferimento internazionalmente riconosciuti e adottati, sia degli standard capaci di evolversi di pari passo con la scienza».
Finanziare la transizione
La finanza climatica era al centro della parte conclusiva del convegno, con l’intervento (da remoto) anche del CEO di UBS Sergio Ermotti che, quantificando in 120 mila miliardi di dollari i finanziamenti necessari per la transizione verso la neutralità climatica, ha sottolineato come le banche (gli intermediari nel citato ecosistema, ndr) siano pronte e disposte ad assumere il loro ruolo in questa transizione, ma all’interno di un quadro generale chiaro che deve essere stabilito dalla politica.
«I sistemi bancari tradizionali non sono ancora strutturati per sostenere i progetti innovativi di riduzione del CO2 nei Paesi in via di sviluppo», ha replicato durante la tavola rotonda Stefano Borghi, CEO di Arborify, società luganese impegnata in progetti, tra gli altri, di riforestazione principalmente nell’emisfero meridionale. Per Borghi, infatti, ci sono ancora molti ostacoli normativi (come l’approccio «arcaico» alla compliance) che impediscono alle banche di finanziare simili progetti del Sud globale, a differenza invece di imprese, per esempio, startup in Occidente.
Essenziali per il funzionamento di un mercato sono i trader. «Se riusciamo a fare trading ed essere anche redditizi, altri ci seguiranno», ha affermato Peter Zonneveld, CEO di DTX Climate Solutions, che ha aggiunto che «gli speculatori forniscono liquidità, senza la quale il mercato muore».