Una storia che non deve più ripetersi
Che ci fosse stata una tardiva – per non dire nulla - comunicazione tra i vertici di Credit Suisse, la direzione della Banca nazionale e il Consiglio federale sul pessimo stato di salute in cui versava la banca, era noto da tempo. Ora è arrivata l’ufficialità. L’allora consigliere federale Ueli Maurer ha sottaciuto informazioni importanti che se condivise per tempo avrebbero, con il senno di poi, probabilmente fatto prendere un’altra piega agli eventi. Un altro epilogo, insomma, per l’allora seconda grande banca del Paese era forse possibile. Oggi la piazza finanziaria svizzera avrebbe ancora un’altra grande banca, ridimensionata per mole, capitali e organico, magari solo orientata al mercato nazionale, ma ancora viva.
Aver dato un nome e cognome a chi aveva la guida politica del Dipartimento federale delle finanze, non alleggerisce le responsabilità di chi aveva le redini delle scelte strategiche e operative di Credit Suisse: il Consiglio di amministrazione e tutti i dirigenti che si sono succeduti in oltre un decennio prima del drammatico crollo avvenuto nel marzo 2023. E questo nonostante abbiano incassato molto – troppo - per il lavoro svolto male. Tra il 2010 e il 2022 Credit Suisse ha registrato una perdita cumulata di 33,7 miliardi di franchi e versato ben 39,8 miliardi di franchi in bonus. Una montagna di risorse sottratte agli azionisti che non hanno comunque evitato alla banca – la parte estera - di essere coinvolta in scandali finanziari internazionali via via sempre più gravi. Dal crollo dei fondi Archegos Capital Market e Greensill costato una perdita di oltre cinque miliardi di franchi, a quello ancora più grave, da un punto di vista etico, dei cosiddetti Tuna Bonds, titoli emessi a fronte di un prestito al Mozambico, uno dei Paesi più poveri sul pianeta che si è poi volatilizzato. Lo scandalo ebbe come conseguenze per il Mozambico il blocco dei finanziamenti da parte del Fondo monetario internazionale, il crollo della valuta e turbolenze finanziarie dalle quali il Paese africano fatica ancora a riprendersi. La fuga degli investitori e dei clienti è stata quindi una conseguenza della crisi di fiducia che ha portato al crollo di Credit Suisse e alla sua fusione «orchestrata» dal Consiglio federale con UBS.
La banca, inoltre, è stata negli anni scorsi attentamente monitorata dall’Autorità di vigilanza sui mercati finanziari e ripetutamente messa in guardia. Ci sono ben undici procedure di enforcement e decine di altri atti d’indagine in dieci anni a testimoniarlo. Viste come sono andate le cose, a questo punto in modo invano o soltanto declamatorio. Un fatto che fa alzare più di un sopracciglio sulla capacità della Finma, come autorità o di chi la guidava in quel momento, di imporsi con autorevolezza nei confronti di una grande banca. Altro esito hanno avuto negli anni scorsi le procedure nei confronti di attori di più modeste dimensioni e peso politico. Il pensiero corre alla ticinese BSI di fatto sparita dalla sera alla mattina per decisione proprio della Finma. Certo, il rapporto della Commissione parlamentare d’inchiesta (CPI) ricorda come l’autorità di vigilanza ha dubitato della strategia di Credit Suisse, ha criticato la sua politica dei bonus, ha riscontrato problemi con i propri fondi, ha denunciato la mancanza di gestione del rischio, ha criticato i continui cambiamenti nel management e ha addirittura individuato lacune nel sistema di prevenzione del riciclaggio di denaro. Il risultato? «Il Consiglio d’amministrazione e la direzione hanno mostrato resistenza ai numerosi interventi della Finma», per usare le parole del documento della CPI. Una «resistenza» che somiglia quasi al dolo. Ora, giustamente, si chiedono norme più cogenti per le banche sistemiche e poteri d’intervento accresciuti alla Finma. Negli ultimi due anni, però, nessun Procuratore pubblico né federale né cantonale, ha sentito il bisogno di farsi raccontare da chi ha amministrato e diretto il Credit Suisse come sono andate le cose.