Sestante

Giovanni Basso, il prete anti pandemia del Seicento

Sulle tracce dell’antico prevosto di Biasca, morto per sostenere i malati di peste nel 1629
Giovanni Basso, riconoscibile per la barba e i capelli bianchi, assiste al Concilio di Trento. Dettaglio di un dipinto nella chiesa di San Pietro a Biasca.
Carlo Silini
04.07.2020 06:00

Simonetta Sommaruga festeggerà il Primo Agosto al Grütli con gli «eroi di ogni cantone» che lottano contro il coronavirus. Se un’iniziativa analoga fosse stata organizzata nel 1630, anno della «peste del Manzoni», probabilmente il campione ticinese sarebbe stato un prevosto di valle, attivo soprattutto a Biasca: don Giovanni Basso. Ecco perché.

«Qui a Biasca, a parte gli studiosi, nessuno se ne ricorda più, tutto è cambiato» ci spiega Silvano Calanca che ha curato con Sanzio Ruspini e Stefano Vassere il volume del repertorio toponomastico ticinese dedicato al comune della Riviera. Un oblio che forse si spiega col fatto che dalla metà del XIX secolo e soprattutto nei primi anni del XX secolo la storia del paese è caratterizzata «dalla presenza di un nutrito numero di atei (ancora nel 1980 Biasca era il comune svizzero con il più elevato tasso di persone senza religione) e da episodi di stampo anticlericale», come scriveva Giuseppe Chiesi nella voce consacrata al borgo del Dizionario Storico della Svizzera. Eppure, il prevosto Basso ha avuto un ruolo di prim’ordine tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento nella storia sociale e religiosa non solo di Biasca, ma delle Tre Valli e - in definitiva – dei territori elvetici (vedi articolo a sinistra).

Resse la prevostura di Biasca per lo spazio di 44 anni, cioè dall’ anno 1586 al 13 ottobre 1629, giorno in cui, dopo aver per ben due volte sfidati i furori della pestilenza (1583 e 1611), la terza soccombeva, martire del suo dovere, soccorrendo le numerose vittime fatte in Biasca dal morbo sterminatore

Due ragioni per ricordarlo

Oggi vale la pena di ricordane la figura per almeno due ragioni. La prima è che questa sarà ricordata come l’estate delle vacanze a chilometro zero, e un itinerario basato sulle abbondanti e semi dimenticate tracce lasciate dal Basso permette di riscoprire vicende e angoli molto suggestivi del nostro territorio. La seconda è che davvero possiamo considerarlo un antico campione della lotta «spirituale» contro la pandemia (di peste, nel suo caso). Il Basso, infatti, leggiamo in un articolo firmato da Isidoro Rossetti in un antico numero del Bollettino storico della svizzera Italiana (dicembre 1883), «resse la prevostura di Biasca per lo spazio di 44 anni, cioè dall’ anno 1586 al 13 ottobre 1629, giorno in cui, dopo aver per ben due volte sfidati i furori della pestilenza (1583 e 1611), la terza soccombeva, martire del suo dovere, soccorrendo le numerose vittime fatte in Biasca dal morbo sterminatore».

I criteri di oggi e di ieri

Certo, coi criteri di oggi, nessuno può dire in che misura il prevosto Basso fu utile nella battaglia contro la peste, e quanto – al contrario – contribuì a diffonderla. La sua, infatti, fu un’opera di assistenza fisica e spirituale che, per quanto ne sappiamo, potrebbe anche aver contribuito all’espansione del contagio. Ma nella mentalità dell’epoca quelle spirituali erano le armi più importanti contro la malattia. E in ogni caso ci voleva del fegato per andare a impartire benedizioni e sacramenti agli infetti. Significava accettare il rischio e a volte la certezza di perdere la propria vita per dare un po’ di conforto ai morenti.

La peste

Nel libro L’antica pieve di Biasca (Lugano 1979), don Isidoro Marcionetti annotava che la prima traccia dell’epidemia che uccise il prevosto di Biasca si trova nella chiesa di San Biagio di Ravecchia su un affresco quattrocentesco che rappresenta l’apostolo Bartolomeo (nella foto sotto), dove qualcuno ha scritto: «1629: fuit pestis».

Il Basso aveva già conosciuto la brutta bestia nel 1597. Il 19 di quell’anno informava il cardinale di Milano sul suo decorso nelle nostre valli. Nel 1611 l’epidemia torna ad imperversare e in quell’occasione il nostro scrive al vicario generale: «Sento assai il travaglio che vedo il fagello di Dio contro di noi, perché la peste fa progresso. Non solo perché ha infetta la casa dei Bullo a Faijdo e a Giornico due case, ma anco perché sento che restano infettate alcune case appresso Bilinzona et si dubita che venendo la primavera non habbi spargersi con danno universale».

La morte

«Nulla», scrive Marcionetti, «ci è stato tramandato dello zelo del Basso nella terribile moria. Le cronache annotano che, dal giorno di sant’Anna dell’anno 1629, inizio della peste, al 1. Maggio 1630, solo in Biasca perirono 150 persone, di 400 che, dopo la tragedia del Crenone e la buzza ne contava ordinariamente» (il riferimento è allo scoscendimento del Monte Crenone nel 1512 e alla successiva «buzza» del 1515). Tempi grami, insomma.

Gli officiali della dottrina cristiana, fedeli imitatori dell’eroica abnegazione del loro Pastore», scrive il già citato Isidoro Rossetti, «perirono quasi tutti adempiendo la pietosa opra di curare i poveri appestati

Sicuramente il prete vallerano aveva applicato le raccomandazioni che il cardinale di Milano, Federigo Borromeo, aveva inviato al clero in occasione della pestilenza: «habbiamo giudicato parte del nostro ufficio incaricarvi con la presente, perchè ordiniate per parte nostra alli re(verendi) Curati della vostra Pieve, che con ogni diligenza, et sollecitudine assistano alla Cura delle Anime ministrandoli (...) Sacramenti e sovenendoli d’ogni agiutto possibile in cosi gran bisogno, dovendo più tosto il buon Pastore mettersi con ogni prontezza a qualsivoglia rischio di morte, per salvar l’Anime a lui commesse, che per paura di perder la vita, abandonarle, quando sono nella magiore necessità quasi d’ogni ajuto. Doveranno pertanto i Parochi in questi tempi vestir viscere di carità paterna e pieni di santo zelo essercitare animosamente verso de suoi Popoli quelli officii di Pietà Christiana che un’ottimo ed amante Padre deve essercitare con suoi figli in così grave necessità».

Un lavoro di squadra

Il cugino di san Carlo intimava poi ai preti di portare nel popolo preghiere, digiuni, santi sacrifici «et altri esercitij spirituali per render placata la Divina Maestà, acciò sottraga da noi i castighi, che ci minaccia». A quanto pare, il prevosto Basso non lottò da solo. «Gli officiali della dottrina cristiana, fedeli imitatori dell’eroica abnegazione del loro Pastore», scrive il già citato Isidoro Rossetti, «perirono quasi tutti adempiendo la pietosa opra di curare i poveri appestati».

La tomba e l’anello

La fonte principale per capire la figura del nostro è lo studio di Sandro Bianconi, Giovanni Basso prevosto di Biasca (Armando Dadò ed., 2005) nel quale scopriamo un aspetto che ci riporta a fatti di cronaca drammaticamente contemporanei: il suo funerale avvenne in regime d’emergenza, cioè senza popolo. La peste non dava tregua e i corpi andavano subito sepolti. Perciò «si provvide un luogo distinto per la sua salma, in attesa di ricomporla nel suo San Pietro. Due anni dopo, infatti, il cardinale concesse questa presenza nell’antica plebana. E il prevosto Basso da allora ha la sua tomba lassù, presso il battistero». In un articolo sul Bollettino storico della Svizzera italiana (1884/10) si osserva che il Basso «morì in concetto di santità» e che «oggigiorno», cioè alla fine dell’Ottocento, il suo sepolcro era chiamato «per antonomasia la Tomba del Prevosto».

Oggi – come sostiene Silvano Calanca - pochi lo ricordano. Ma qualcosa nella memoria collettiva resiste. Nel bollettino parrocchiale della Pasqua dell’anno scorso, lo stesso Calanca ricorda che nella «Gésa Vegia» una lastra di granito indica ancora dove è stato sepolto, dopo che la peste lo colse nel 1629, il prevosto Giovanni Basso (foto sopra). Su quella lastra un anello che, e i nonni ancora ce lo raccontavano, veniva stretto tra le mani, veniva anche mosso nel chiedere aiuto spirituale o fisico nei momenti più delicati della vita». Il nome del Basso è stato aggiunto alla lastra negli anni Settanta, quando i vecchi del paese lo chiamavano ancora «ul sant», come ci spiega il sacrista Sandro Delmué.

I suoi ritratti

Per tutti gli altri, le tracce più significative sono ravvisabili nel ciclo di affreschi del 1620 dedicati a Carlo Borromeo che lui stesso aveva fatto eseguire nella chiesa di san Pietro commissionandoli al pittore bellinzonese Alessandro Gorla. Sono una testimonianza iconografica preziosissima per illustrare lo status della Chiesa prima del concilio di Trento e l’opera riformatrice del Borromeo a ridosso delle Alpi. In alcuni riquadri, accanto al santo milanese, appare anche Giovanni Basso, riconoscibilissimo per la barba e i capelli corti e bianchissimi. «Il ciclo – scrive L. M. R. Barbieri (Le preaclara gesta: fonti per l’iconografia di san Carlo Borromeo) - è incentrato sull’azione riformatrice del Borromeo: la scena centrale è occupata dalla seduta del concilio di Trento (foto sopra), in basso sono tre piccoli riquadri illustranti il ministero pastorale di san Carlo (...). Il riquadro successivo mostra Carlo Borromeo con il prevosto Basso e un gruppo di fanciulli (...). Il ciclo prosegue (...) con le scene del Pellegrinaggio a Varallo e della Morte del santo».

Ma un itinerario alla scoperta dell’eredità fisica di Giovanni Basso dovrebbe comprendere anche altre opere architettoniche, come l’oratorio di santa Petronilla (nella foto sopra) da lui voluto, l’antico seminario di Pollegio di cui fu il primo rettore e l’ospizio della cappella sul passo del san Gottardo che fece riedificare. Di quei progetti ci sono pervenuti schizzi preparatori di sua mano.

Il trionfo del barocco

In realtà, una larghissima parte del territorio religioso delle Tre Valli è stato segnato in un modo o nell’altro dal suo intervento. Nel ventennio tra il 1585 e il 1629 in qualità di provisitatore, il prevosto biaschese di origini airolesi visitò almeno 5 volte le parrocchie del suo comprensorio cercando di far applicare le direttive tridentine per le ristrutturazioni di chiese e cappelle. Fu quella l’epoca in cui buona parte degli edifici romanici di casa nostra venne sostituita o ristrutturata nel nuovo stile imposto dalla controriforma cattolica: il barocco.

Figlio di un soldato

Nato nel maggio del 1552 ad Airolo, Giovanni Basso era figlio di un soldato. Fu il principale esecutore della riforma cattolica dopo il concilio di Trento nelle Tre Valli.

Il rapporto con Carlo Borromeo è strettissimo. I due si conobbero quando l’allora arcivescovo di Milano era in vista pastorale ad Airolo nel 1567. Isidoro Marcionetti ricorda che san Carlo aveva intuito «nell’animo del giovinetto quindicenne l’aprirsi di una vocazione (...). Se ne preoccupò subito, facendolo accogliere nel Seminario minore di Arona, da lì passò al seminario di San Giovanni a Milano, dove giunse a 18 anni».

Nell’archivio arcivescovile di Milano c’è una scheda che lo riguarda nello status Clericorum Seminarji dove si ricorda, tra le altre cose, che aveva due sorelle nubili, era povero («patriomunium habet tenuissimum»), non era particolarmente versato nelle lettere, ma era bravo nel canto. E intelligente («bono ingenio»).

Ordinato sacerdote nel 1576, nel 1582 aderì alla congregazione degli oblati di Sant’Ambrogio, un ordine creato dal Borromeo per divulgare il verbo del Concilio di Trento. Vi aderirono diversi preti delle nostre valli. Giovanni Basso è «l’ombra del Borromeo nei paesi sui quali aveva giurisdizione». Non a caso nelle lettere che si scambiavano, il cardinale lo definisce «Tu cor meum ac dextera mea».

L’arrivo a Biasca

Parroco di Airolo dal 1577, viene chiamato come coadiutore del prevosto di Biasca nel 1582 e a quanto pare ci va malvolentieri. Il suo predecessore era un tal Giovan Battista Tognetti che anni prima era finito sotto processo per scarsa moralità. Diventa prevosto nel 1586 e lo rimane fino alla morte, nel 1629. Inoltre, è provisitatore delle Tre Valli ambrosiane dal 1584 al 1629.

Il legame con Carlo Borromeo è plasticamente attestato dai dodici dipinti dedicati alla vita dell’arcivescovo, commissionati dal Basso e realizzati attorno al 1620 (dieci anni dopo la canonizzazione del Borromeo) da Alessandro Gorla nella chiesa di San Pietro. In alcuni riquadri viene ritratto anche lui.

padre Protasio ad altro non attende, se non in hostarie con imbriaghi, giorni, et notte, anzi la sua casa è un’hostaria, vende vino, si gioca, si biastema

Conosceva i suoi preti

Segue con cura il clero affidatogli. Conosce tutti i preti di tutti i villaggi, li visita spesso. Molti dei suoi scritti vertono sul comportamento deviato dei preti. Come nel caso del curato di Claro: «p. Protasio ad altro non attende, se non in hostarie con imbriaghi, giorni, et notte, anzi la sua casa è un’hostaria, vende vino, si gioca, si biastema». Scrive moltissimo, soprattutto ai vescovi e agli ordinari milanesi con i quali si confronta per i problemi maggiori, a partire dalla peste.

Si impegna per tutelare i diritti della sua pieve dagli appetiti dei quattro canonici di Milano, che vorrebbero per loro la decima di Biasca. E si pone come mediatore tra potere giuridico degli svizzeri e potere ecclesiastico di Milano.

Contro la follia dei roghi

Simile per zelo e forza di carattere al suo mentore Carlo Borromeo, si distingue da lui per un atteggiamento assai più illuminato nei confronti della stregoneria, come dimostra una sua lettera del 1613:

«Adesso da per tutto, cioè Locarno, Bilinzona, Mesolgina, Riivere e Bregno ad altro non si atende, se non bruciare streghe. (...) Confessano cose tanto orrende, che pare, che ognuno si debba movere a far giustizia, (...). Commessi molti omicidi, sterilità, infirmità, tempeste et ne sono nominati tanti, che dovendogli abbrugiare tutti venerà carestia di legna».

Il luogo simbolo

Il luogo simbolo delle vicende che ruotano attorno alla figura di Giovanni Basso è la chiesa di san Pietro e Paolo di Biasca (nella foto CdT sopra) che risale al 1171. «Subì rimaneggiamenti all’interno nel XVII e nel XVIII secolo (...). L’architetto Alberto Camenzind tra gli anni 1955-1967 riportò̀ l’edificio alle forme romaniche», leggiamo nel sito della parrocchia. «All’interno della chiesa colpisce la pendenza della pavimentazione in pietra, dovuta al fatto che il basamento che sostiene l’edificio non compensa interamente il dislivello naturale del declivio granitico sul quale esso è costruito». I dipinti più antichi (XIII secolo) occupano le vele delle volte a crociera sopra il transetto e rappresentano figure rustiche e stilizzate: cavallo e il lupo; il fabbro e il gallo, il leone che combatte il serpente, e il pavone. L’Ultima Cena, San Cristoforo e San Pietro risalgono al periodo gotico. La maggior parte degli affreschi fu eseguita nei decenni attorno al 1500. Il ciclo dedicato a san Carlo voluto dal Basso risale al 1620 e in alcune scene lui stesso appare accanto all’arcivescovo, con barba e capelli candidissimi.