L'intervista

«Gli estremisti non vogliono che viviamo insieme in pace»

A tu per tu con Samah Salaime, giornalista palestinese tra le più influenti attiviste per i diritti delle donne in Israele
Un bimbo ebreo e uno palestinese nel villaggio di Neve Shalom Wahatas Salam. © Archivio villaggio di Neve Shalom Wahatas Salam
Luca Steinmann
03.05.2024 20:00

Parla Samah Salaime, giornalista palestinese tra le più influenti attiviste per i diritti delle donne in Israele. È portavoce del villaggio Neve Shalom Wahat as Salam, abitato sia da arabi che ebrei, con l’obiettivo di dimostrare che è possibile vivere insieme sulla base di una mutua accettazione. Samah Salaime sarà a Lugano mercoledì 8 maggio, ospite dell Fondazione Spitzer.

L’attacco terroristico del 7 ottobre e la violenta reazione israeliana stanno mettendo sotto scacco la convivenza tra ebrei e palestinesi nel vostro villaggio e, in generale, in tutta la Terra Santa?
«Per noi di Neve Shalom Wahat as Salam quello che sta avvenendo è un enorme shock. Nonostante la situazione stesse deteriorando ormai da anni mai ci saremmo aspettati un attacco terroristico di questa portata. Quando la mattina del 7 ottobre iniziarono ad arrivarci le notizie da intorno a Gaza capimmo che stavano iniziando tempi drammatici. Tutti noi abbiamo parenti, amici o conoscenti colpiti in questa guerra, io per esempio ero amica di Vivian Silver, l’attivista per i diritti delle donne che quel giorno venne uccisa. Molti di noi hanno anche amici che vivono dentro la Striscia. Capimmo anche che la reazione di Israele sarebbe stata terribile e che tutto ciò avrebbe aumentato a dismisura l’odio. Capimmo che gli estremismi di entrambe le parti, sia palestinesi che ebraici, si sarebbero radicalizzati e avrebbero aumentato gli attacchi contro la nostra comunità, dove invece arabi ed ebrei vivono insieme».

Non è quindi cosa nuova che gli estremismi non vedano di buon occhio Neve Shalom Wahat as Salam?
«Negli ultimi anni abbiamo subito diversi attacchi. Il nostro villaggio è stato assaltato più volte da gruppi di estremisti ebraici. Hanno distrutto la nostra scuola, appiccato incendi dolosi, imbrattato i muri con scritte che recitano “morte agli arabi” e distrutto le auto delle famiglie, senza fare distinzioni se i proprietari fossero ebrei o palestinesi. Questa la dice lunga sul loro obiettivo: non si tratta di attacchi contro gli arabi piuttosto che contro gli ebrei, ma contro l’idea che arabi ed ebrei possano vivere insieme».

Dopo il 7 ottobre tutto ciò è peggiorato?
 «È peggiorato sia per i palestinesi che per gli ebrei. Nel nostro villaggio vivono diversi ebrei pacifisti che parlano di pace e criticano l’occupazione e che dopo il sette ottobre sono stati esclusi da molti gruppi di amici o attivisti di altre parti di Israele. Vengono considerati dei traditori anche da coloro che prima erano moderati. Questo era proprio l’obiettivo di Hamas, che il sette ottobre ha attaccato, ucciso e sequestrato non solo ebrei, ma anche arabi, donne con il velo, richiedenti asilo, lavoratori thailandesi. Non volevano solo colpire gli ebrei, ma soprattutto instillare terrore e odio nella società israeliana. Ciò ha acceso in molti israeliani un istinto di vendetta contro i palestinesi. Sarebbe invece importante spiegare che il 7 ottobre è stato un attacco contro tutti noi, anche contro di me che sono palestinese».

Quando dopo l’attacco del sette ottobre ci siamo riuniti nel villaggio molti di noi, sia ebrei che palestinesi, piangevamo. C’è voluto tutto il coraggio per imparare a condividere questo dolore

C’è ancora tempo per ricucire le ferite generate da questo odio?
«Quando dopo l’attacco del sette ottobre ci siamo riuniti nel villaggio molti di noi, sia ebrei che palestinesi, piangevamo. C’è voluto tutto il coraggio per imparare a condividere questo dolore. Era importante fare sentire che c’eravamo gli uni per gli altri. Molti erano feriti e furenti e cercavano qualcuno a cui attribuire le responsabilità per quello che stava succedendo. Volevano sapere: sei con noi o contro di noi? Con Hamas o contro? A favore o contro i bombardamenti sulla Striscia? Non c’era spazio per dialoghi profondi che contestualizzassero il processo storico che ha portato a questa situazione. Di sottofondo sentivamo il rumore delle bombe che esplodevano a Gaza, vedevamo gli aerei da guerra passare sopra di noi, sentivamo la terra tremare. Al contempo vedevamo volare nella nostra direzione i razzi di Hamas. Uno di loro è caduto nei campi vicino al villaggio».

Poi come avete continuato?
«Con il tempo stiamo riprovando a rafforzare il dialogo. È un processo molto doloroso per il quale non c’è una soluzione a breve termine. Noi palestinesi dobbiamo ascoltare i nostri vicini ebrei, sentire le loro paure, capire il loro trauma collettivo che proviene dalla loro storia e i ricordi che l’attacco di Hamas ha evocato in loro. Al contempo dobbiamo fare capire loro che l’odio e le ripercussioni contro i palestinesi evocano a loro volta il terrore per una seconda naqba. Io ho raccontato la storia dei miei genitori, che nel 1948 vennero espulsi dai loro villaggi perdendo tutto, spiegando come sono cresciuta nell’ombra di questo trauma. Stiamo cercando di farci capire a vicenda le nostre paure così da rimanere uniti e non dovere essere forzati a scegliere tra una parte piuttosto che un’altra. È questa l’unicità di Neve Shalom Wahat as Salam. Non vogliamo coesistere forzosamente, ignorandoci a vicenda. Noi scegliamo di vivere insieme».

C’è speranza che il modello di Neve Shalom Wahat as Salam si diffonda?
«In Israele quasi non esistono luoghi puramente ebraici o palestinesi. Nella maggior parte del Paese ebrei e palestinesi vivono gli uni di fianco agli altri senza però considerarsi, come se gli altri non ci fossero. Noi invece superiamo questa divisione e accettiamo la realtà, ovvero che tra il fiume e il mare ci sono i palestinesi che vivono insieme agli ebrei. Noi abbiamo deciso di farlo pacificamente. Naturalmente anche nella nostra comunità ci discussioni e visioni diverse. Ma abbiamo fatto una scelta: quella di formare una società condivisa fondata su un’educazione non segregata. Abbiamo un’enorme domanda di persone che vogliono aggregarsi a noi e mandare i figli nella nostra scuola condivisa. Questo dà molta speranza».