Gli internati militari e la loro resistenza a lungo dimenticata

Nel corso di una guerra sono molti a pagare un prezzo altissimo, perdendo la vita, ma non solo. Soldati delle forze belligeranti e civili sono i primi a cui si pensa. A margine dei conflitti ci sono però altre storie di sofferenza meno conosciute. Come quella del luinese Natale Schiani, uno delle centinaia di migliaia di militari italiani deportati in Germania sul finire della Seconda guerra mondiale. Ce la racconta suo figlio Mario.
Natale Schiani era nato il 19 dicembre del 1921 ed era sottotenente del Genio a Pavia, quando, quando l’8 settembre del 1943 il governo italiano presieduto da Pietro Badoglio firmò l’armistizio con gli Alleati anglo-americani. E qui, come per moltissimi soldati italiani, iniziò per lui un lungo e duro periodo da deportato e internato in Germania. Per fatti, numeri e aspetti che hanno pure riguardato la Svizzera e il Ticino vi rimandiamo alle parole dello storico Marino Viganò che trovate negli articoli a seguire, mentre del contesto in cui si sono ritrovati a vivere Natale Schiani e moltissimi suoi commilitoni parliamo con uno dei due figli, Mario Schiani, che insieme al fratello Paolo ha scritto il libro Il fucile dietro la schiena, pubblicato da Dominioni Editore e fresco di uscita nelle librerie.

Una storia rimossa per decenni
Mario e Paolo Schiani hanno raccolto le lettere scritte dal padre ai famigliari e da questi al padre durante la deportazione e l’internamento. Da qui è appunto nato Il fucile dietro la schiena. Per non togliervi il piacere della lettura e soprattutto della scoperta di una storia di vita come quella di Natale Schiani non entriamo nei dettagli del libro. Anche perché, parlando, con Mario Schiani abbiamo preferito ricordare più in generale perché uomini come suo padre, pur soffrendo nell’ombra lontano da casa, hanno avuto la forza morale di opporsi e resistere a un nazifascismo fattosi ancor più brutale con l’avanzare verso la Germania degli Alleati angloamericani da sud e ovest e dell’Armata rossa da est.

«Quella degli internati militari italiani che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 si sono rifiutati di proseguire la guerra aggregandosi alla Repubblica di Salò o addirittura nelle file di Wehrmacht e SS è una storia che per decenni, dopo la conclusione del conflitto, in Italia non è stata riconosciuta. Eppure ha avuto una grande importanza, senza voler togliere nulla, ci mancherebbe, alla Resistenza, ai movimenti partigiani che i nazifascisti li hanno combattuti armi in mano, come pure alcuni reparti di quelle forze armate dell’ormai disciolto esercito italiano che hanno fatto altrettanto, dopo l’8 settembre del 1943».

Operai per l’industria bellica
Qual è stato il destino degli internati militari italiani nei territori del Reich tedesco, anche quelli occupati da Wehrmacht e SS e appartenenti ad altre nazioni? «I soldati italiani vennero presi e trasferiti in Germania (e non solo) soprattutto per essere impiegati come lavoratori nell’industria bellica del Reich in sostituzione degli operai tedeschi mandati al fronte. Quella degli IMI, appunto gli internati militari italiani, numericamente fu una forza lavoro notevolissima per i tedeschi, se non che nei vari campi dove erano stati portati vivevano in condizioni così pessime, tra fame e malattie, che non potevano rendere convenientemente, nello svolgere le loro mansioni lavorative. Al che, il già misero rancio, veniva ridotto come misura punitiva per il mancato rendimento, e gli IMI si indebolivano ulteriormente».

«Fortunatamente – prosegue Mario Schiani – mio padre, che una volta concluso il conflitto sul teatro europeo, tornò sano e salvo nella sua Luino, mentre molti altri IMI andarono incontro alla morte, ebbe sempre la salute dalla sua, nonostante le privazioni a cui era costretto (da casa, però, riceveva pacchi con generi di prima necessità, alimentari e vestiti, grazie ai quali potè sopravvivere un pochino meglio). Nel 1945, a Dippoldiswalde, non lontano da Dresda, si ritrovò a lavorare alla Blanke Armaturen, specializzata nella produzione di raccordi idraulici per la lubrificazione dei motori e di dispositivi per il controllo dell’olio. Un’azienda che perciò era impegnata a pieno regime nella produzione bellica. Mio padre, che si era formato come perito elettrotecnico a Intra, alla Blanke Armaturen, venne messo a lavorare a un tornio, ma scoprì un trucco per produrre pezzi dalle misure sbagliate. Ecco quindi che per un po’ riuscì in un’azione di sabotaggio del tutto personale, un’infrazione alle regole di quelle considerate gravi dai tedeschi, che per questo e altri motivi non esitavano a giustiziare immediatamente gli internati».

Una galassia indistinta
Ma perché il rifiuto della maggioranza degli IMI di aderire alla Repubblica di Salò o passare alla Wehrmacht oppure alle SS non è stato considerato nella sua giusta luce, senza contare le loro altre forme di resistenza durante l’internamento?
«Il movimento della Resistenza e dei partigiani, pur nelle sue varie sfaccettature, ha avuto contorni sostanzialmente definiti e quindi, una volta conclusa la guerra e nei decenni successivi, per certi versi è stato più “comodo” considerarlo da parte di tutti, in Italia, come il fulcro della lotta contro il nazifascismo. A questo proposito basti pensare che la casa editrice del Partito comunista italiano negli anni Cinquanta si rifiutò di pubblicare il memoriale scritto da Alessandro Natta – poi segretario nazionale dello stesso PCI dopo Enrico Berlinguer – su quel che aveva vissuto dopo l’armistizio, lui che da soldato dell’esercito italiano ormai allo sbando aveva combattuto i tedeschi sull’isola greca di Rodi. La galassia degli IMI, invece, era indistinta, meno definibile, perché comprendeva uomini che fascisti non lo erano e fascisti delusi dal fascismo stesso, soldati che al momento dell’armistizio credevano che la guerra fosse conclusa o sul punto di esserlo, altri che combattere non avrebbero mai voluto né prima, né dopo i primi giorni del settembre del ’43... E tutti andarono a finire in una sorta di limbo, con il trasferimento forzato in territori del Reich non solo lontani dalla patria, ma dove prima di tutto dai tedeschi erano considerati dei traditori, salvo coloro che accettarono di fiancheggiare i nazifascisti. La loro, quella degli IMI, era una storia che di per sé non aveva nulla di eroico, di eclatante, motivo per cui per decenni è stata dimenticata».

Eppure la loro parte l’hanno comunque fatta... «Ne sono convinto e ho avuto più di una conferma raccogliendo insieme a mio fratello Paolo la documentazione per Il fucile dietro la schiena. Pensiamo solo ai numeri: del milione di soldati italiani ritrovatisi senza ordini e direttive dopo l’armistizio e che finirono nelle mani dei tedeschi, coloro che decisero di non collaborare con i nazifascisti – applicando anzi varie forme di disobbedienza e resistenza durante il periodo dell’internamento – furono ben 900.000».
E si trattò di forze «che si sottrassero e vennero sottratte a una macchina da guerra nazifascista ormai messa alle corde in seguito all’avanzata degli Alleati angloamericani e dell’Armata rossa; una macchina i cui vertici avevano creduto di poter contare sugli internati militari italiani sia come combattenti sia come rincalzi per l’industria bellica, ma così non fu», annota in conclusione Mario Schiani.
Quei convogli non passarono dalla Svizzera
I mesi estremi della Seconda guerra mondiale annoverano svariati episodi non tanto tenebrosi, quanto rievocati in modo impreciso. Tra queste vicende finali del conflitto, ridotto per i regimi fascista e nazista a una lotta per la sopravvivenza e a eccessi insensati, c’è la deportazione dall’Italia occupata dal Terzo Reich, dal settembre del 1943, di militari e civili. Testimonianze incontrollate, amplificate da campagne di discredito della Svizzera – orchestrate e, quando rivelatesi inattendibili, mai respinte con altrettanta fermezza – hanno propagandato transiti via territorio elvetico di convogli di quei deportati. I documenti, però, li smentiscono.
Nei fatti le frontiere svizzere risultano del tutto bloccate, e se ne interessano dal 12 gennaio al 25 aprile 1944 gerarchi nazisti in Italia, riuscendo a ottenere dalla Confederazione il «via libera» lungo la direttrice sud-nord per vagoni carichi d’acciaio, lamierati, riso e su quella nord-sud di cereali, patate, carbone. Chiusi, invece, i confini al passaggio di prigionieri.

Massimo Magistrati, ministro a Berna, ne rassicura il Regio governo già il 10 gennaio 1944: «Ad oggi non è stato ammesso il transito di nessun treno con uomini, lavoratori o deportati di qualsiasi natura». Il 16 marzo ripete: «In circa sei mesi non un solo uomo italiano è stato deportato dall’Italia in Germania attraverso la Svizzera». E torna il 16 novembre a garantire che «neanche un solo treno di nostri deportati è transitato per la Svizzera», per concludere come «le frontiere di Briga e di Chiasso» si fossero «inesorabilmente» interposte a qualunque tentativo «di tale natura».
Questo il contesto complessivo, in cui rientrano i deportati ebrei, nessuno dei quali, pertanto, viene trascinato in Germania via Svizzera. Ed è evidente che pure nessuno dei militari arriva lassù dai corridoi ferroviari del Sempione o del San Gottardo. Si verifica semmai a fine guerra il tragitto inverso, ossia il rimpatrio.

Interdetta dai nazisti la tutela di enti internazionali quali il Comitato di Ginevra della Croce Rossa, la massa dei 900.000 internati militari italiani, così qualificati dai tedeschi, ricade sotto la «protezione» del governo fascista della Repubblica sociale italiana, che attiva sia organi statali (il Servizio assistenza internati, affidato al prefetto Marcello Vaccari e all’organizzatore sindacale Armando Foppiani, la Croce Rossa italiana, presieduta da Coriolano Pagnozzi, l’ambasciata fascista d’Italia, con a capo Filippo Anfuso, la Missione militare italiana, del colonnello Umberto Morera) sia del partito (l’Ispettorato dei fasci, nominalmente diretto da Vittorio Mussolini, primogenito del Duce, e la Federazione dei fasci a Berlino, coordinata da Antonio Bonino, squadrista e già internato).
Difficile già censire i Lager, arduo l’invio dei soccorsi e vicino il crollo del fronte italiano da cui fornirli, Benito Mussolini strappa ad Adolf Hitler il 20 luglio 1944 per gli IMI, appunto gli internati militari italiani, la qualifica di «liberi lavoratori», e più ampie tutele, benché sempre soggetti a vessazioni.
A dicembre, infine, il governo ottiene il ritorno, coordinato dal medico Giorgio Alberto Chiurco, delegato della CRI del nord, dei militari tubercolotici sulla tratta Lindau-Chiasso a condizioni precise: vagoni sigillati, niente contatti tra i soldati e la popolazione elvetica. Autorizzato dal Dipartimento politico federale il 14 marzo 1945 e veicolato dal consolato di Svizzera a Milano, il primo treno da Görlitz giunge a Varese il 27. «Ci caricarono su un treno ospedale sigillandoci nei vagoni come se fosse stato merce di monopolio», recriminerà un ex internato.
Il grosso, a guerra finita, tornerà via Brennero. Evasi dai Lager, altri 781 italiani entrati il 21 maggio in Svizzera sono ospedalizzati a Herisau: saranno rimpatriati con altri convogli, più umani. Questa la vicenda dei treni passati via cantone Ticino durante gli ultimi mesi del conflitto. Allora, la Confederazione ha tanto da farsi perdonare, non però, quantomeno, a proposito dei presunti «treni di deportati». Marino Viganò, storico
Fatti e cifre di un periodo drammatico
Lo sbando dell’8 settembre
All’annuncio l’8 settembre 1943 della capitolazione firmata segretamente cinque giorni innanzi dal governo del maresciallo Pietro Badoglio con gli Alleati anglo-americani, l’Esercito italiano, lasciato senza ordini, eccetto alcuni episodi di reazione ai tedeschi, divenuti nemici, si dissolve. Ecco con quali ricadute in campo militare.
Deportazione in Germania
Circa un milione di soldati italiani impegnati sui fronti di guerra dalla Francia ai Balcani, dalla Grecia all’Italia del sud – dove si battevano contro britannici e statunitensi – sono catturati, disarmati e deportati dai tedeschi negli Internierungslager.
La qualifica dei prigionieri
Inizialmente i soldati del Regio esercito italiano sono classificati «prigionieri di guerra», dicitura impropria poiché catturati in stato di resa (la dichiarazione di guerra del Regno d’Italia al Reich segue solo il 13 ottobre 1943). Il 20 settembre, convinto Mussolini a formare un governo neofascista (annunciato il 18, costituito il 23), Hitler impone la qualifica, inedita, di Internati militari italiani (IMI), «attribuendoli» d’autorità alla parte dell’Italia «alleata» del Reich, benché per la stragrande maggioranza irrecuperabili e ostili. Nel contempo Hitler li sottrae alla Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra del 1929, potendo così disporre di un immenso serbatoio di lavoratori coatti in numero di centinaia di migliaia.
L’«internamento» militare
Richiesti di tornare a combattere a fianco del Reich, 20.000 internati italiani entrano nelle Waffen-SS e nella Wehrmacht germanici e circa 100.000 nelle costituende forze armate del governo fascista detto Repubblica sociale italiana (RSI). I rimanenti 900.000 restano nell’internamento dei Lager del Grande Reich, su un territorio assai più vasto di quello germanico, rifiutando l’adesione per i più vari motivi: giuramento al re, ostilità al neofascismo repubblicano, attesa di una rapida fine del conflitto data l’avanzata alleata.
Le condizioni
Privi di tutele internazionali (del resto improponibili in una Germania confrontata alla guerra totale, a caccia di «traditori» cui addossare colpe e forza-lavoro da sfruttare per tenere in piedi il regime), gli internati sono arbitrariamente obbligati a corvée interne ed esterne: sgombero di macerie, riattazione di impianti bombardati, supporto a strutture della Wehrmacht, impiego nelle industrie belliche e nei campi. La qualifica di «lavoratori liberi», ottenuta nel luglio del 1944, non rende loro l’effettiva libertà, ma ne migliora almeno le condizioni nel contesto di progressivo sfacelo del Reich germanico.
M.V.
Il fil rouge è l'epistolario
La storia
Il libro Il fucile dietro la schiena (Dominioni Editore, 2021) narra il periodo vissuto come internato militare italiano da Natale Schiani (luinese nato nel 1921 e morto nel 2013) nell’ultima parte della Seconda guerra mondiale. Il fil rouge è costituito dallo scambio epistolare fra Natale Schiani e i suoi famigliari durante la detenzione e l’internamento.
Gli autori
Sono i figli di Natale Schiani, Mario e Paolo, l’uno responsabile delle pagine culturali del quotidiano La Provicincia di Como e l’altro contabile ora in pensione.