Guerra, crisi economica, democrazia: tutti i nodi che stringono l’Est Europa
Che cosa sta succedendo nel cuore dell’Europa politica? Perché in Germania, Moldavia, Ungheria, Slovacchia, e adesso anche in Romania, una parte consistente dell’elettorato sembra cedere sotto la spinta di leader populisti e di movimenti che si richiamano alla destra più estrema? Quanto pesano, su questo scenario, tre anni quasi di guerra in Ucraina?
L’esito del primo turno delle presidenziali romene, con l’affermazione a sorpresa del candidato indipendente Calin Georgescu, rilancia domande rimaste senza risposte certe ormai da troppo tempo.
Soluzioni impossibili
«Il risultato è sorprendente - dice al Corriere del Ticino Giulia Maria Lami, ordinaria di Storia dell’Europa Orientale all’Università Statale di Milano - nessuno se lo aspettava. Capisco come ciò che più colpisce dall’esterno sia l’orientamento filorusso del personaggio, e anche il fatto che la sua popolarità sia stata sottovalutata. Ma Georgescu, pur rappresentando un’ultradestra che gioca con tutta una serie di temi sovranisti, a livello di politica interna - lì come altrove - sfrutta i problemi economici di alcune fasce della popolazione, le più deboli, cui promette soluzioni probabilmente impossibili».
Certo è che, 34 anni dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra fredda, si ha talvolta l’impressione che in alcune società Est-europee dòmini una sorta di nostalgia di tempi andati. Il moto di ribellione contro l’Unione Sovietica e contro il sistema del Socialismo reale sembra essere del tutto rientrato.
«Si tratta di una riflessione ricorrente - dice la professoressa Lami - ma io credo che in realtà prevalga, quasi ovunque, la convinzione che essere in Europa convenga. È facile fare demagogia sull’Unione, soprattutto quando Bruxelles impone sacrifici, ma i problemi dei singoli Paesi vanno al di là dell’Europa. Che, in ogni caso, elargisce molti aiuti. Il discorso è complesso, ma personalmente non credo che ci sia una nostalgia del periodo sovietico. Ci sono piuttosto inquietudini, divisioni sociali e la percezione di una crisi economica pesante».
L’idea che esistano «ricette magiche a livello nazionale con le quali sia possibile superare queste difficoltà e queste strozzature è spesso un’illusione - dice ancora la storica dell’Università di Milano - Le ricette puramente nazionali hanno, come dire, le gambe piuttosto corte, e tendono ad essere più promesse che una possibilità effettiva. Dopodiché, purtroppo è vero che i discorsi sull’integrazione sembrano portare, almeno in questo momento storico, a un rafforzamento di localismi e di regionalismi, o alla difesa di interessi di categoria che non sono in grado di guardare alle grandi sfide del periodo».
Prima delle quali, ricorda la professoressa Lami, è «porre fine, ma in modo giusto ed equo, alla guerra in Ucraina».
Segnali contrastanti
In effetti, dall’elettorato romeno, e prima ancora da quello moldavo e dallo stesso elettorato tedesco, è sembrato giungere un segnale chiaro, di stanchezza nei confronti della guerra. È davvero così? Secondo Emanuela Costantini, associata di Storia contemporanea all’Università di Perugia e studiosa dell’Est Europa, non solo, e non del tutto. «Gli elettori romeni - dice Costantini al CdT - hanno piuttosto lanciato un segnale di stanchezza e di disaffezione verso l’establishment del Paese e verso i partiti tradizionali che per oltre 30 anni, alternandosi al potere, hanno governato a Bucarest: i liberali e i socialdemocratici. Georgescu è un candidato indipendente, senza partito, la sua affermazione è un indicatore che mostra la debolezza di un sistema partitico ormai percepito come molto lontano dalla popolazione».
La guerra in Ucraina ha sicuramente avuto un peso, «ma - spiega la storica umbra - questo non deve portare a letture distorte. Georgescu è senz’altro un candidato filorusso e ha preso una posizione nei confronti della guerra in Ucraina diversa da quella dei partiti di Governo. Tuttavia, ho qualche dubbio sul fatto che l’elettorato romeno si sposti su posizioni filo-putiniane. Il Paese è fortemente e tradizionalmente su posizioni antirusse, da prima della Guerra fredda. Non credo che il voto di domenica sia un segnale di avvicinamento al Cremlino».
Sul conflitto che da quasi tre anni incendia l’Europa centrale, insiste la professoressa Costantini, «più di quello che accade nei Paesi di confine temo sia decisivo quanto succede negli Stati Uniti e, in parte, anche ciò che si muove nell’Unione Europea che, da sola, non ha le risorse per sostenere l’Ucraina contro la Russia. Certo, lo spostamento di alcuni Paesi dell’Est su posizioni poco solidali nei confronti di Kiev è un segnale preoccupante. E, da questo punto di vista, è particolarmente allarmante la situazione in Moldavia, un Paese in cui ci si aspettava che la guerra ai confini spingesse in avanti le forze filo-europeiste, cosa che in effetti non c’è stata o è avvenuta solo parzialmente».
È paradossale, dice sul tema Giulia Maria Lami, che «nei Paesi più vicini e più esposti alla Russia, possa prevalere l’idea che sia meglio tenersi fuori dal conflitto, mentre in altri Paesi come la Finlandia o la Svezia, sia prevalsa una scelta di natura diversa. Georgescu ha detto che per la Romania è un rischio stare nella NATO, ma c’è anche chi ha cominciato a far notare come non si possa nemmeno preparare il terreno al Cremlino per un’invasione. Tra l’altro anche la Romania, ormai dovrebbe entrare nell’accordo di Schengen. Quindi, non è detto che queste pulsioni antieuropeiste, alla fine, prevalgano».
La transizione fallita
Resta il fatto che, almeno in parte, la transizione della vecchia Europa comunista verso il sistema liberale sembra in parte essere fallita. «Soprattutto in Paesi come l’Ungheria, la Polonia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia - dice Emanuela Costantini - Un dato spiegabile con la debolezza strutturale di Stati che venivano da esperienze autoritarie precedenti alla Guerra fredda. Ma anche con le crisi economiche che hanno indebolito il consenso nei confronti dei governi democratici e filoeuropeisti. L’involuzione ha accelerato dal 2008 in poi. E lo stesso Orbán è arrivato al potere nel 2010. Non è un caso».