I 78 giorni delle bombe sulla Serbia

BELGRADO - Esattamente vent’anni fa, il 24 marzo del 1999, iniziarono i 78 giorni dell’incubo serbo. Per oltre due mesi e mezzo, le bombe della NATO hanno colpito le città di tutta la nazione. Gli obiettivi sarebbero dovute essere le basi militari del Paese, ma tra loro si trovarono anche fabbriche, ospedali, ponti, la sede del ministero della Difesa (nella foto sotto) e anche il palazzo che ospitava la tv pubblica RTS, strutture situate nel cuore di Belgrado.

Nella capitale, così come nelle altre città, tra la gente nacque un clima di costante panico e incertezza, esasperato ulteriormente ad ogni rumore che poteva, anche solo per un istante, ricordare quello di una sirena d’allarme. Era la guerra. Percepita in maniera ben più concreta di quelle fratricide dei primi anni ’90 che, svolgendosi ai confini, in fondo, toccarono in maniera meno incisiva la quotidianità della Serbia urbana. Una Serbia cosciente che la storia stesse cambiando, ma cui era concesso di andare avanti con il suo tran tran di tutti i giorni. Il ’99 è stato diverso, ha lasciato solchi più profondi. Non c’è un numero di vittime ufficiale ma le ONG ne stimano oltre il migliaio, la metà delle quali civili. Una delle quali la piccola Milica Rakic, morta a tre anni dopo essere stata colpita, il 17 aprile, dal frammento di una bomba intelligente.
Il contesto internazionale
La decisione di intervenire con quella che è stata denominata Operazione Allied Force era nell’aria da mesi. I negoziati tra l’Occidente e l’allora presidente di quella che veniva ancora chiamata Jugoslavia (benché formata ormai solo da Serbia e Montenegro), Slobodan Milosevic, non portavano frutti, solo promesse di intesa alle quali in pochi erano rimasti a credere. Sembrava non ci fosse altro modo per fermare i barbari interventi delle forze di Milosevic in Kosovo se non con l’occhio per occhio. L’azione aerea della NATO, partita dall’Italia e messa eccezionalmente in atto senza il via libera del Consiglio di sicurezza, si collocò in un clima internazionale particolarmente debole, caratterizzato da leader come Bill Clinton, reduce dallo scandalo Lewinsky o Massimo D’Alema con una crisi di Governo alle porte. Neppure l’alleata storica della Serbia, la Russia, guidata all’epoca da Boris Eltsin, mostrò supporto e nemmeno disse la sua. Del resto, Eltsin sarebbe rimasto in carica solo fino al dicembre di quell’anno, quando Mosca si sarebbe poi definitivamente affidata a quello che è tuttora il suo deus ex machina, Vladimir Putin. Chi vi scrive ricorda bene i piccoli raduni di protesta organizzati allora anche in Ticino dalla diaspora balcanica allo slogan di «russi traditori (o disertori)» a conferma del sentimento di abbandono provato dalla popolazione nei confronti di quella che veniva percepita come una sorella maggiore, la Russia, che non fece però sentire la sua voce ma rimase nella penombra.

La protesta invisibile
La delusione nei confronti della comunità internazionale cominciò all’epoca a radicarsi con sempre maggiore forza tra la popolazione e quel presidente Milosevic, tanto contestato tra alcune cerchie del Paese, rimase l’unico a dirsi preoccupato per il popolo. Il consenso a suo favore nella Serbia rurale, che rappresenta una grossa fetta del Paese, era incontestato. L’élite intellettuale e soprattutto quella studentesca belgradese, già da mesi, protestavano però per le strade. Una protesta sentita e costante, chiamata «Otpor!» («Resistenza!») che risultò però silenziosa perché debolmente documentata dalla stampa nazionale e internazionale.
La fine dei bombardamenti e i nuovi rifugiati
I bombardamenti termineranno 78 giorni dopo, Milosevic si arrese e ritirò le truppe dal Kosovo. A ritirarsi dalla propria terra fu però anche la gran parte della popolazione serbo-kosovara che, intimorita dalle potenziali ritorsioni della comunità albanese in Kosovo, finalmente libera dalla repressione di Belgrado, rimase così senza una casa, sparpagliandosi per il Paese ospitata da parenti o in rifugi appositamente creati. Vittima della protesta crescente, un anno dopo, Milosevic avrebbe perso il potere politico uscendo sconfitto dalle elezioni del settembre 2000.

Uno di cinque milioni
L’entusiasmo per la fine delle guerre e del regime non è però durato a lungo e, invece di rialzarsi, la Serbia non ha mai smesso da allora di affrontare continue crisi interne. E anche oggi, le proteste contro il Governo e l’attuale presidente Aleksandar Vucic, malgrado il filtro mediatico, sono tornate in auge. Non si chiamano più «Otpor!» ma «1 di 5 milioni», dalla dichiarazione di Vucic che disse che non accoglierà le richieste dei manifestanti nemmeno se fossero stati cinque milioni. Dopo quattro mesi di marce pacifiche per le vie di Belgrado e di altre decine di città in tutto il Paese, sabato scorso, il 16 marzo, la protesta ha aperto le porte dell’emittente nazionale RTS, accusata di fornire un servizio di informazione manipolato. E non si è trattato di un’invasione metaforica: dopo mesi di manifestazioni inascoltate, decine di cittadini guidati da due leader dell’Alleanza per la Serbia hanno fatto irruzione nell’edificio di RTS. La tensione è durata il tempo di un fine settimana, ma nonostante il torpore mediatico, le marce pacifiche contro Vucic sono tornate anche oggi, come ogni week-end, per le strade del Paese.





