I Politecnici svizzeri (con l’aiuto di Frozen) fanno luce su uno dei grandi misteri dell’URSS

Alzi la mano chi non s’è mai sentito attratto da un mistero. Da uno di quei rompicapi che nemmeno gli esperti possono risolvere. Uno di quelli che lascia libera la mente di vagare e di dare una propria lettura, per quanto fantasiosa. Come non essere affascinati da un evento al quale, pur con tutta la tecnologia e la conoscenza delle quali disponiamo, non si può dare una spiegazione univoca e razionale?
Quello divenuto famoso come «l’incidente del passo di Djatlov» è uno di questi enigmi, uno di quelli che tira in ballo Yeti ed esperimenti sovietici. Forse, però, sarebbe più corretto scrivere che era uno di questi, dato che l’ETH di Zurigo, ad oltre 60 anni dagli accadimenti, è riuscito a fornire un’interpretazione che non vada a scomodare i mondi della criptozoologia e della pseudoscienza. Una spiegazione però, e vi sembrerà incredibile, che ha avuto bisogno del sostegno di un team di animatori della Disney: quello che si è occupato delle ormai celebri Anna ed Elsa e del simpatico pupazzo di neve Olaf in Frozen.
Una coraggiosa spedizione sulla «Montagna morta»
Il 27 gennaio del 1959, dieci ragazzi partirono dal villaggio di Vizhay per una spedizione di 14 giorni che doveva portarli sul monte Gora Otorten, nella parte settentrionale dell’Oblast sovietico di Sverdlovsk. Il gruppo era composto da otto uomini e due donne, studenti dell’Istituto Politecnico degli Urali, e a guidarli v’era il 23.enne Igor Djatlov.

Il percorso, nel periodo invernale, era classificato come di terza categoria, la più rischiosa, con temperature che scendevano fino a -30°C. «Cronaca di una morte annunciata», penseranno alcuni riguardo all’apparente incoscienza dello scegliere un simile tracciato. Quei dieci, tuttavia, erano tutto fuorché sprovveduti: benché poco più che ventenni (solo un membro della spedizione aveva più di trent’anni), tutti erano esperti escursionisti, sciatori alpini e di fondo.
Il ritorno al villaggio di Vizhay era fissato al più tardi per il 12 febbraio, ma per Juri Judin, 22.enne membro della spedizione, l’avventura terminò prima del previsto. Dopo solo 24 ore dalla partenza, il 28 gennaio, dei dolori articolari lo costrinsero ad abbandonare l’impresa. E fu una gran fortuna, per lui: cinque giorni più tardi, tutti i suoi compagni andarono incontro alla morte mentre si trovavano sul passo della Kholat Syakhl, la «Montagna morta», nella lingua degli indigeni mansi.

Le ricerche, la macabra scoperta, le indagini... gli Yeti?
A fine febbraio, dopo una settimana dalla partenza delle ricerche degli escursionisti dispersi, furono fatti i primi ritrovamenti. Sui pendii della Kholat Syakhl vennero individuati i resti dilaniati della tenda usata dai ragazzi: spuntava a malapena dalla neve e sembrava tagliata dall’interno. Gli effetti personali del gruppo erano stati abbandonati. Il 27 febbraio, vennero poi trovati due membri della spedizione: i loro corpi giacevano ai piedi di un vecchio cedro siberiano, vestiti solo con calzini e biancheria intima. Altri tre cadaveri, compreso quello di Djatlov, furono successivamente trovati tra l’albero e il sito della tenda. Nei mesi che seguirono, le squadre di ricerca trovarono gli altri quattro escursionisti in fondo ad una gola vicina, coperti da uno spesso strato di neve. Molti dei deceduti avevano gravi ferite, come fratture al petto e al cranio. La conclusione più logica fu allora che una valanga doveva aver sorpreso il gruppo mentre dormivano, ma i soccorsi non avevano trovato alcuna prova evidente del suo passaggio o del suo deposito. I giovani avevano effettuato un taglio in un pendio per piazzare la propria tenda, ma l’angolo medio del clivo sopra il sito, meno di 30°, non era abbastanza ripido per una slavina, che sarebbe comunque occorsa breve tempo dopo il taglio e non nove ore dopo, come gli indizi sembravano suggerire. Le lesioni riportate dai ragazzi, poi, non erano del tipo solitamente osservate nelle vittime di questi fenomeni.

Cosa poteva, allora, aver ucciso i ragazzi? E perché vennero trovati, la maggior parte di loro, vestiti solamente della propria biancheria?
Le autorità sovietiche indagarono per tre mesi nel tentativo di determinare le cause di questo strano dramma, ma dovettero concludere che una non meglio precisata «irresistibile e sconosciuta forza della natura» aveva causato la morte degli escursionisti. Tale conclusione fece entrare l’incidente avvenuto sul passo (che venne rinominato in onore di Djatlov) nel folklore russo e questo non tardò ad arricchirlo con spiegazioni più o meno fantasiose, come quella degli Yeti assassini o degli esperimenti militari insabbiati dal Governo sovietico.



Negli anni che seguirono, il mondo non si dimenticò dell’incidente sul passo di Djatlov, al contrario: molti scrittori si ispirarono, per i loro romanzi, alla sfortunata avventura dei nove escursionisti e nel 2013 fu girato un film ambientato proprio sulla «Montagna morta» (Il passo del diavolo, diretto da Renny Harlin).
Nel mese di febbraio del 2019, il Governo russo decise di riaprire le indagini; l’unica pista nel «cold case» rimaneva quella della slavina, ma le incongruenze identificate 60 anni prima dalle autorità sovietiche si stavano ripresentando. La valanga era l’unica spiegazione razionale possibile, la risoluzione del complicato puzzle, ma gli ultimi pezzi non volevano saperne di incastrarsi.
I Politecnici svizzeri ed il colpo di genio: simulare l’incidente con le animazioni di Frozen
È dunque un po’ a sorpresa, a due anni dalla riapertura del caso, che giovedì scorso, l’ETH di Zurigo e l’EPF di Losanna hanno annunciato insieme di essere arrivati a costruire un’ipotesi plausibile per spiegare gli eventi sul passo.
A far quadrare i conti, come spesso accade, è intervenuto il caso. Nell’ottobre del 2019, spiega il comunicato dei Politecnici, un giornalista del New York Times ha infatti chiamato il professore dell’EPFL Johan Gaume per chiedergli cosa ne pensasse dell’incidente. Gaume, a capo dello Snow and Avalanche Simulation Laboratory (Laboratorio di simulazione della neve e delle valanghe), non ne aveva però mai sentito parlare: «Ho chiesto al giornalista di richiamarmi il giorno seguente così che avessi tempo di raccogliere più informazioni. Quello che ho appreso mi ha incuriosito. Dopo la chiamata del giornalista, ho iniziato a scrivere equazioni e cifre sulla mia lavagna, cercando di capire cosa potesse essere successo in termini puramente meccanici. Ho poi contattato il professor Alexander Puzrin, vicedirettore dell’Istituto di ingegneria geotecnica dell’ETH di Zurigo, che avevo incontrato un mese prima a una conferenza in Francia», ha raccontato Gaume. L’obiettivo era, con il simulatore di valanghe, ricreare perfettamente quanto avvenuto sul passo di Djatlov e dimostrare che «l’assassino» non era altro che una slavina. E tutto ciò non sarebbe stato possibile senza l’aiuto di un improbabile alleato: il film Frozen.
Anni prima, Gaume era rimasto particolarmente colpito dalle animazioni utilizzate per la neve nel successo Disney. Così colpito, riporta il sito di National Geographic, da voler viaggiare fino ad Hollywood per incontrare gli specialisti che se ne erano occupati, in modo da carpirne i segreti per il suo laboratorio di simulazione delle valanghe.
Con la propria simulazione, ETH ed EPFL hanno quindi risolto le apparenti incongruenze nella teoria della slavina. «Abbiamo usato i dati sull’attrito della neve e la topografia locale per dimostrare che una piccola valanga a lastroni avrebbe potuto verificarsi su un pendio dolce, lasciando poche tracce. Con l’aiuto di simulazioni al computer, abbiamo dimostrato che l’impatto di un lastrone di neve può portare a lesioni simili a quelle osservate». Rimane l’apparentemente inspiegabile l’intervallo di tempo tra il taglio effettuato dagli escursionisti sul pendio e l’innesco dell’evento. «Questo è l’obiettivo principale del nostro articolo», ha sottolineato Gaume nel comunicato. «Gli investigatori non sono stati in grado di spiegare come, in assenza di qualsiasi nevicata quella sera, una valanga possa essere stata innescata nel bel mezzo della notte, nove ore dopo il taglio». Il diario di Djatlov, però, riporta che nella notte della tragedia c’erano delle forti raffiche di vento. Uno dei fattori più importanti per il verificarsi di questo dramma è stato probabilmente proprio la presenza di venti catabatici, venti che portano l’aria giù lungo un pendio seguendo la forza di gravità. Quella notte, i venti avrebbero trasportato la neve, che si sarebbe poi accumulata a monte della tenda a causa di una specifica caratteristica del terreno di cui i membri della squadra non erano a conoscenza. «Se non avessero fatto un taglio nel pendio, non sarebbe successo nulla. Questo è stato l’innesco iniziale, ma da solo non sarebbe stato sufficiente. Il vento catabatico ha probabilmente spostato la neve e ha permesso che un carico extra si accumulasse lentamente. Ad un certo punto, una crepa potrebbe essersi formata e propagata, causando il distacco della lastra di neve», ha concluso Puzrin.

Niente Yeti, dunque? Probabilmente no. Ma entrambi gli scienziati hanno preferito essere cauti, riguardo alle loro scoperte, e hanno sottolineato che molti aspetti dell’incidente rimangono un mistero. «La verità, naturalmente, è che nessuno sa veramente cosa è successo quella notte. Ma noi forniamo una forte prova quantitativa che la teoria della valanga è plausibile», ha affermato Puzrin.
Rimane un quesito da risolvere: per quale motivo la maggior parte dei ragazzi sono stati trovati parzialmente svestiti? La cosa, propone National Geographic, può essere spiegata con le tendenze di spogliamento paradossale osservate in una certa percentuale dei morti per assideramento. Quando l’ipotermia si fa grave, le vittime provano un momentaneo senso di calore causato dal dilatarsi dei vasi sanguigni nei muscoli: ciò le spinge, unitamente allo stato confusionale, a spogliarsi, accelerando in realtà l’assideramento.
L’eredità di Djatlov e di questo studio
I due modelli sviluppati per questo studio - uno analitico per calcolare il tempo necessario a provocare una valanga, creato dall’ETH di Zurigo, e uno numerico del Laboratorio di simulazione dell’EPFL per stimare l’effetto delle valanghe sul corpo umano - saranno utilizzati per comprendere meglio le slavine e i rischi associati. Il lavoro di Gaume e Puzrin, sottolineano i due Politecnici nel comunicato, vuole essere un omaggio al team di Djatlov, che si è trovato di fronte a una vera «forza irresistibile» della natura.