I segnali dietro le nomine di Donald Trump
(Aggiornato alle 21:10) Da Mar-a-Lago, la sfarzosa fortezza in Florida, Donald Trump e la sua squadra di strateghi – capitanata dall’uomo d’affari Howard Lutnick e dalla fedelissima Susie Wiles, futura capo staff a Washington– hanno pubblicato una raffica di nomine nei ruoli chiave della prossima amministrazione. Il nome più «grosso» e conosciuto è certamente quello di Elon Musk, messo a capo del DOGE, il Dipartimento per l’efficienza governativa. Un organo che ufficialmente non sarà un’agenzia dello Stato, ma come ha detto il Tycoon avrà il preciso compito di «eliminare gli enormi sprechi e le frodi che esistono nei nostri 6.500 miliardi di dollari di spesa pubblica annuale». In breve, dovrà smontare il gigantesco apparato burocratico americano economizzando 2.000 miliardi di dollari. Assieme al fondatore di Tesla, SpaceX e proprietario del social media X ci sarà Vivek Ramaswamy, già candidato repubblicano alla presidenza e pure lui potente businessman nel campo della farmaceutica. Due grossi nomi, dicevamo. Ma non sono stati gli unici: Trump ha infatti proceduto con altre rilevanti nomine. Mike Waltz, ad esempio, sarà consigliere alla sicurezza nazionale, Pete Hegseth segretario alla Difesa, Mike Huckabee ambasciatore a Gerusalemme, John Ratcliffe direttore della CIA. Senza dimenticare Marco Rubio (nominato ufficialmente segretario di Stato) ed Elise Stefanik (ambasciatrice all’ONU). Insomma, una lista che per ideologia e conformazione a molti osservatori sembra tramutare le promesse elettorali in realtà: dal gennaio 2025 ci sarà un’altra America, che taglierà i ponti – anche a livello di cultura istituzionale – con il passato. Alcuni commentatori si sono pure chiesti se con il secondo mandato alla Casa Bianca di Trump verranno spazzati via decenni di struttura amministrativa «bipartisan», in cui anche l’opposizione politica era rappresentata.
Addio alla cultura bipartisan?
Che cosa significano queste nomine? Quali indizi nascondono? Lo abbiamo chiesto a Mario Del Pero, professore di storia americana a Parigi Sciences Po. Del Pero comincia proprio dal tema della rappresentanza dei due schieramenti nei vertici dell’amministrazione. «Il tema della cultura istituzionale bipartisan negli Stati Uniti è andato scemando negli anni», spiega. «È vero che per quanto riguarda in particolare la politica estera e la Difesa si notava ancora una tendenza a nomine maggiormente rappresentative, ad avere quindi anche membri esperti del partito opposto nei ruoli chiave, ma con la polarizzazione a cui abbiamo assistito negli ultimi anni questo processo si era già indebolito».
Più in generale, secondo il professore la raffica di nomi fatta da Trump fa emergere due elementi. «Il primo dice che fedeltà, allineamento e radicalismo sono i criteri utilizzati per fare queste nomine. Il secondo, invece, fa capire ancora una volta che il partito repubblicano è ormai un partito MAGA, e queste persone sono dunque lealisti trumpiani. O della prima ora, o – come Rubio e Stefanik – che lo sono diventati. Non ci sono più figure dell’establishment repubblicano come invece c’erano durante la prima amministrazione Trump. Penso a Rex Tillerson, H.R. McMaster. Quell’anima repubblicana, di fatto, non esiste più». Il partito, oggi, si specchia solamente con Trump. È personificato nel Tycoon, e non contiene più elementi di diversità o di continuità con una certa tradizione politica della destra americana. «I nomi scelti sono megafoni di Trump», chiosa Del Pero. «È questa la cosa che più colpisce».
Da un generale a un capitano
Ma un’altra rivoluzione, sempre nel solco di un’assoluta fedeltà al capo, riguarda uno dei posti più delicati di ogni amministrazione USA: il numero uno del Pentagono. Il segretario alla Difesa del presidente repubblicano sarà Pete Hegseth, conduttore televisivo per Fox News e già membro delle forze armate con il grado di capitano. Per fare un confronto, l’attuale segretario Lloyd Austin, è generale a quattro stelle, sette posizioni sopra il grado di capitano. Seppur sconosciuto e al di fuori degli schemi «classici», Hegseth, per Trump, rappresenta la testa di ponte per l’annunciato «repulisti» all’interno dell’esercito più potente al mondo. «Decapitare le forze armate non è possibile», avverte Del Pero. «C’è un sistema istituzionalizzato di gerarchie. Però sì, dentro gli apparati militari prevale una linea. Lo si vede bene nei flussi di voto: militari di rango inferiore tendono a votare il partito Repubblicano, ma più si sale la piramide e più queste convinzioni si affievoliscono. Hegseth fa pendere l’ago della bilancia verso una linea molto più radicale, lontanissima da Austin». Per quanto riguarda l’aspetto geopolitico della scelta, gli indizi portano in una direzione: «Credo che l’apparato militare verrà piegato a funzione del contenimento della Cina», spiega il professore. «In maniera ancora più accelerata rispetto a quanto avvenuto con Joe Biden. Bisognerà però capire che tipo di legami ci saranno fra la Difesa e alcuni ‘pezzi’ del mondo privato». Sul Medio Oriente, invece, le nomine di Huckabee ad ambasciatore a Gerusalemme e Stefanik all’ONU rendono evidenti uno spostamento marcato verso Israele. «Si sta assistendo al completo allineamento al Likud di Benjamin Netanyahu», osserva ancora Del Pero. «Anche perché, rispetto ai Democratici, Trump non ha il problema di un elettorato diviso sull’argomento mediorientale. La base repubblicana non ha dubbi: Israele deve poter utilizzare qualsiasi mezzo per garantirsi la sicurezza». Il nuovo Governo americano, aggiunge il nostro interlocutore, condividerà l’intenzione di Tel Aviv di mettere pressione sul regime iraniano. «Il punto interrogativo, a questo punto, è capire se verrà lasciata ‘solo’ carta bianca a Netanyahu oppure se gli Stati Uniti avranno un ruolo attivo nella questione».
«Oligarchi ricchissimi»
Come visto, al di sopra degli interessi e del significato delle nomine fatte da Trump spicca un nome: Elon Musk. Il miliardario è stato messo alla testa di un «dipartimento-ombra», e dovrà scardinare (ma soprattutto tagliare) il budget dell’amministrazione. Lo farà con Vivek Ramaswamy. Queste le parole di Trump: «Insieme, questi due meravigliosi americani spianeranno la strada alla mia amministrazione per smantellare la burocrazia governativa, tagliare le normative eccessive, tagliare le spese inutili e ristrutturare le agenzie federali, essenziali per il movimento ‘Save America’. Diventerà, potenzialmente, ‘il progetto Manhattan’ dei nostri tempi». Come leggere la nomina di Musk, uno dei principali ‘contractor’ del governo statunitense grazie alle sue imprese? «Il suo nome va letto con più chiavi», commenta Del Pero. «Sicuramente si tratta di un’ulteriore intensificazione di un rapporto opaco, incestuoso, tra il settore pubblico e privato. È un processo di privatizzazione dell’apparato pubblico. L’idea alla base di questo disegno, per Musk, è la seguente: grazie alla mia tecnologia e alla mia imprenditorialità, renderò più efficiente il settore pubblico surrogandone funzioni e servizi che non è in grado di erogare». Un conflitto di interessi enorme, dunque, anche perché Musk e le sue aziende sono soggette a leggi e regolamenti. «Sì, il conflitto d’interessi è macroscopico», sottolinea Del Pero. «Siamo di fronte a una concezione privatistica del sistema pubblico, che viene gestito da privati. E che mette risorse a disposizione dei privati. Su piccola scala abbiamo già visto questo fenomeno quando l’esercito statunitense ha appaltato molti compiti alle agenzie private, i cosiddetti ‘contractors’». Un modello nuovo di pensare la democrazia americana, quindi, come aggiunge il professore. «Di fatto, abbiamo una serie di oligarchi, con Musk in testa, che ambiscono a mettere in asse le loro ricchezze indecenti e la loro influenza pubblica con un potere politico che non hanno mai avuto. Ma che oggi ambiscono a esercitare loro stessi».