L'intervista

«I vescovi svizzeri sono presi dalla “sindrome di Gorbaciov”»

Josselin Tricou, sociologo delle religioni all'Università di Losanna, ci aiuta a capire in quale direzione si stia muovendo la Chiesa rispetto agli abusi
© Keystone/Anthony Anex
Paolo Galli
31.10.2024 06:00

Il 12 settembre 2023 veniva pubblicato il rapporto dell’Università di Zurigo sugli abusi sessuali nella Chiesa svizzera. Da allora abbiamo registrato tutta una serie di mezze notizie e di mezze reazioni. Per fare il punto della situazione siamo tornati a rivolgerci a Josselin Tricou dell’UNIL.

Professore, dal suo punto di vista come si è evoluta la questione all’interno della Chiesa dal 12 settembre del 2023 a oggi?
«Il 27 maggio, in una conferenza stampa a Zurigo, l’episcopato svizzero ha rivelato una serie di misure attualmente in fase di sviluppo o di attuazione all’interno della Chiesa cattolica svizzera per meglio prevenire la violenza sessuale tra le sue file. Queste misure sembravano essere un passo nella giusta direzione, anche se molte di esse si aggiravano ancora alla periferia del problema. Ironia della sorte, lo stesso giorno a Berna anche la Chiesa evangelica riformata ha tenuto un incontro pubblico per presentare le proprie misure per affrontare il problema della violenza sessuale all’interno della Chiesa, misure che la leadership nazionale intendeva mettere ai voti nell’assemblea sinodale di giugno. In Svizzera l’atteggiamento attendista della stessa Chiesa evangelica sulla questione è stato a lungo sostenuto dall’attenzione e dall’enfasi su una probabile specificità cattolica in materia di violenza sessuale, mentre - allo stesso tempo - la Chiesa cattolica ha a sua volta bloccato qualsiasi riforma significativa negando questa specificità. Le cose si stanno ora muovendo su entrambi i lati della grande frattura storica del cristianesimo che segna il panorama religioso svizzero, anche se da ambo le parti, per gli interessati, c’è la sensazione che le cose stiano accadendo molto - troppo? - lentamente e molto spesso solo sotto pressione».

Il cardinale Prevost ha sottolineato i progressi compiuti dai membri della Conferenza episcopale svizzera, ma allo stesso tempo il Vaticano ha espresso un rimprovero a sei vescovi. Come leggere questa duplice posizione?
«Questo paradosso apparente va letto come un sintomo della complessa realtà in cui si trova l’istituzione, e cioè che i vescovi sono allo stesso tempo parte del problema e parte essenziale della soluzione. Ricordiamo che in Francia il dopo-CIASE (intende il rapportodella Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa, ndr) è stato segnato da una serie di reazioni: le rivelazioni sui vescovi si sono susseguite e la serie di rivelazioni ha giocato un ruolo importante nell’effetto yo-yo e di saturazione emotiva avvertito dai fedeli. Il fatto che queste rivelazioni potessero riguardare anche i vescovi aveva scosso le ultime certezze di molti fedeli, che avevano tanto sperato che fossero LA soluzione. I vescovi francesi non avevano avuto il coraggio di accettare le conclusioni della CIASE? In realtà, i fedeli potevano immaginare che questi casi sarebbero venuti alla luce, semplicemente perché i vescovi sono doppiamente parte del “sistema degli abusi” all’interno della Chiesa cattolica: come sacerdoti che possono aver commesso atti riprovevoli e hanno beneficiato della copertura ecclesiastica, e/o come responsabili di sacerdoti che possono aver contribuito a coprirli».

Il Gruppo di interesse delle vittime di abusi nel contesto ecclesiale si è detto infatti costernato dalla reazione di Roma. Si aspettava una maggiore assunzione di responsabilità. Non è ancora tempo che Roma e i vescovi assumano una linea più dura?
«Non so per quanto riguarda Roma, ma io continuerei a concentrarmi sui vescovi. Coloro che sono attualmente al comando nella Chiesa sono presi da quella che io chiamo “sindrome di Gorbaciov”. Nel momento in cui sentono di “aprire” il sistema, di coinvolgerlo in un processo di resilienza istituzionale senza precedenti, sono anche bloccati nello stesso sistema a cui appartengono e che hanno contribuito a far funzionare. In questo senso, hanno l’impressione di fare tabula rasa - a torto o a ragione - e, al contempo, di non fare mai abbastanza, o di doversi assumere la responsabilità di errori passati che non erano errori in sé. Questo disagio da parte dei vescovi, espresso in via ufficiosa, può anche riguardare, per alcuni di loro, il fatto di essere stati essi stessi vittime. In altri casi, soprattutto tra i vescovi più “giovani”, può esserci il pensiero che spetterebbe ai vescovi più anziani l’assunzione di responsabilità e la risoluzione di una situazione che, loro, hanno semplicemente ereditato. Ma che sia per un atteggiamento attendista, per dissociazione, per conflitti di lealtà, per senso di colpa, per protezione reciproca o per sincero stupore, ogni nuova rivelazione mette in evidenza un’incapacità di agire. E la paralisi collettiva che ne deriva ostacola ogni reale progresso verso riforme commisurate alla dimensione sistemica del problema - riforme della distribuzione del potere, del modo di intendere la sessualità, delle procedure disciplinari -; problema aggravato dal fatto che Roma teme lo scisma e detiene una parte cruciale della soluzione attraverso il “lucchetto romano”, cioè il fatto che solo Roma, e persino solo il Papa, può teoricamente decidere sui cambiamenti strutturalmente importanti. Ma in pratica, il Papa stesso è limitato in questo dalla sua preoccupazione di preservare l’unità della Chiesa, un esercizio molto complicato quando sappiamo che un’intera frangia di cattolici è ostile al cambiamento».

In definitiva, su quale mappa sta navigando la Chiesa svizzera? Dove può portarla? E soprattutto: secondo lei, la meta è chiara?
«A livello svizzero, i vescovi sono ovviamente consapevoli di questo duplice limite: quello dello sfuggente consenso dei fedeli sulla questione e quello istituzionale del “lucchetto romano”. E certamente vogliono rispettare la propria gerarchia e ottenere il sostegno del maggior numero possibile di loro subordinati, chierici e fedeli. Quindi sono impegnati in una sorta di bilanciamento per vedere fino a che punto possono spingersi con le riforme locali».

Lei - lo abbiamo letto in un’intervista sul sito cath.ch - insiste sulla necessità di condurre un’indagine socio-demografica sugli abusi. Perché è così importante, dal suo punto di vista, e come potrebbe essere utile nel processo di riforma?
«Quando è stato presentato il rapporto sull’indagine condotta dall’Università di Zurigo, i vescovi svizzeri si sono detti propensi ad attuare tutte le raccomandazioni formulate dal gruppo di ricerca per l’ulteriore lavoro di indagine da svolgere. Alla fine, però, hanno deciso di non finanziarne una, e non la meno importante: proprio un’indagine socio-demografica sugli abusi. Questo è stato uno dei principali progressi fatti dalla CIASE francese. Un’indagine d’archivio come quella inizialmente condotta dall’Università di Zurigo, per quanto importante, è per definizione incompleta. Anche perché un numero molto ridotto di vittime si rivolge alle istituzioni o ai tribunali. Un’indagine sulla vittimizzazione della popolazione, combinata con interviste intensive, consentirebbe invece di tracciare i contorni generali del fenomeno e di comprendere nel dettaglio i meccanismi che lo favoriscono. Un altro vantaggio di tale indagine sarebbe quello di poterla confrontare con altre Chiese. La Svizzera, con il suo pluralismo confessionale, è un luogo ideale per farlo, cosa che la Francia non ha fatto. In quali Chiese o in quali comunità religiose questi casi sono più frequenti? Se ci sono differenze di frequenza, quali sono i meccanismi specifici coinvolti? Sono domande per le quali la scienza non dispone ancora di informazioni sufficienti per farsi un’idea chiara, al di là di intuizioni condivise o ipotesi di lavoro. Più che un esercizio di sensibilizzazione, un simile lavoro comparativo permetterebbe di oggettivare quelle leve concrete per ridurre i rischi in ciascuna Chiesa. La paura gioca indubbiamente un ruolo nella riluttanza sia dei vescovi cattolici che del Sinodo riformato. L’esempio della CIASE, che ha prodotto una stima di 300.000 minori abusati in un contesto ecclesiale, ha dimostrato che il fenomeno era più frequente nella Chiesa cattolica che altrove - a parte la famiglia -, e che persisteva nonostante il calo del numero di sacerdoti e di fedeli. E questo dato ha fatto scalpore. Ma ha anche provocato il rifiuto e persino la critica dei vescovi francesi che ne erano gli sponsor indiretti. Non sono sicuro che i vescovi svizzeri, così come alcuni rappresentanti della stessa Chiesa evangelica svizzera, vogliano ottenere risultati così impressionanti, che eroderebbero ulteriormente l’immagine della loro Chiesa e la loro stessa autorità, sia all’interno che all’esterno. Ciò impedirebbe loro di agire nella giusta direzione, in particolare minando la loro autorità e il consenso faticosamente conquistato sulla necessità di agire. La sindrome di Gorbaciov, appunto».

«Promuovere meglio l’accesso delle vittime alle informazioni»

«Vorrei che mi preparaste un rapporto sulle iniziative della Chiesa per la protezione dei minori e degli adulti vulnerabili. Questo potrà essere difficile all’inizio, ma vi chiedo di incominciare da dove sarà necessario in modo da poter fornire un rapporto affidabile su ciò che sta accadendo e su ciò che deve cambiare». Era stata questa la richiesta di papa Francesco, a cui era seguita l’istituzione di un gruppo di studio ad hoc, presieduto dalla giurista Maud de Boer-Buquicchio. Di giovedì i primi risultati. In occasione della presentazione, la stessa Maud de Boer-Buquicchio ha detto: «Questo rapporto promuove l’impegno della Chiesa a dare una risposta rigorosa alla piaga dell’abuso, basata sui diritti umani e incentrata sulle vittime». Quale simbolo del rigore e della resilienza, in copertina lo studio vanta un albero di baobab. Il cardinale O’Malley, presidente della commissione Tutela Minorum, ha a sua volta sottolineato che «il lavoro della commissione riguarda e ha sempre riguardato il riconoscimento e l’inclusione delle vittime e dei sopravvissuti agli abusi nella vita della Chiesa». Il testo documenta rischi e progressi negli sforzi della Chiesa per proteggere i bambini. Raccoglie anche risorse e pratiche ideali da condividere nella Chiesa universale. «Dovrebbero essere studiate misure che garantiscano il diritto di ogni individuo a qualsiasi informazione lo riguardi, nel rispetto delle leggi e dei requisiti in materia di protezione dei dati», si legge. Lo stesso cardinale O’Malley ha citato la Preghiera di San Francesco: «Dove ci sono le tenebre, dobbiamo lavorare incessantemente per portare la luce». E poi ha ringraziato le vittime, che hanno coraggiosamente parlato. «La vostra resilienza è una testimonianza di speranza. E sono anche grato a tutti coloro che stanno lavorando per sviluppare e implementare le politiche e le procedure necessarie affinché la Chiesa sia il più possibile capace di prevenire il ripetersi di abusi».

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