L'intervista

Il cardinale Ouellet: «L’assenza del vescovo ordinario non è una condizione ideale»

Il teologo canadese, prefetto emerito del Dicastero dei vescovi, sarà a Lugano venerdì 14 marzo per un convegno sui 30 anni della Facoltà di Teologia
Il cardinale Marc Ouellet insieme con papa Francesco. © REMO CASILLI
Dario Campione
13.03.2025 06:00

l cardinale canadese Marc Ouellet, 80 anni, già prefetto della Congregazione e del Dicastero dei vescovi, è uno dei maggiori studiosi del teologo svizzero Hans Urs von Balthasar. Domani sarà a Lugano per partecipare a una tavola rotonda sui 30 anni della Facoltà di Teologia, primo nucleo costitutivo dell’Università della Svizzera italiana. Il Corriere del Ticino lo ha intervistato.

Eminenza, domani lei sarà a Lugano per i 30 anni della facoltà di teologia. Le chiedo innanzitutto se conosce la facoltà e se conosceva il suo fondatore, il vescovo luganese Eugenio Corecco.
«Conosco la facoltà ma non ho mai conosciuto personalmente monsignor Corecco, è morto giovane e non ho avuto l’opportunità di incontrarlo. Tuttavia, ho letto alcuni suoi scritti, soprattutto quelli relativi al tema della sinodalità, e mi sono interessato alla sua storia. Ho invece conosciuto di persona alcuni teologi che hanno insegnato a Lugano: Pierre Chantraine, il cardinale Angelo Scola, Libero Gerosa. Anche di Arturo Cattaneo ho letto i libri che hanno sviluppato una scuola teologica interessante e attuale».

Quale dev’essere, secondo lei, oggi, la funzione di una facoltà di teologia?
«La Costituzione apostolica Veritatis gaudium di papa Francesco, pubblicata nel 2018 come base per la riforma degli studi ecclesiastici, ha insistito sul fatto che una facoltà di teologia debba essere un laboratorio culturale, l’espressione che coinvolge tutto il popolo di Dio nella ricerca teologica. La formazione che si dà in una facoltà teologica non è soltanto una specializzazione intellettuale, un insieme di competenze finalizzato a ottenere un diploma, ma una formazione integrale che abbia la fede come categoria fondamentale e integri le conoscenze e le personalità di chi ha una consapevolezza vocazionale».

Lei è uno dei maggiori studiosi del teologo svizzero Hans Urs von Balthasar. Che rapporto ha con il nostro Paese? Che cosa sa della Confederazione?
«Il mio interesse primario, sin dal seminario, 60 anni fa, sono state la personalità e la teologia di von Balthasar. Ho fatto molti viaggi in Svizzera, ne ho conosciuto la cultura e sono rimasto in contatto con la diocesi di Basilea e con la Comunità San Giovanni fondata dallo stesso von Balthasar e da Adrienne von Speyr. Questo patrimonio teologico-spirituale è il mio punto di riferimento principale in Svizzera. So anche che la Svizzera è una democrazia tra le più antiche e che conserva originalità e autonomia dentro l’insieme europeo. Un Paese con grandi valori, una storia che stimo e una geografia affascinante».

Come ex prefetto della Congregazione e del Dicastero dei vescovi, come giudica il fatto che la diocesi di Lugano sia da così lungo tempo - due anni e mezzo, ormai - retta da un amministratore apostolico e non abbia un ordinario?
«Lei mi fa una domanda un po’ delicata. Io non svolgo più una funzione istituzionale da due anni, quindi non ho più seguito da vicino la vicenda. Certo, 30 mesi sono un tempo lungo, una risposta dovrebbe arrivare in un futuro prossimo perché, ovviamente, la situazione non è ideale. Ci sono sicuramente ragioni che impediscono una conclusione immediata, suppongo. Ma la mia è un’ipotesi. Come dicevo, non sono al corrente degli sviluppi. Per questo non posso veramente rispondere alla sua domanda. Se non ribadire che, oggettivamente, non è ideale quando una amministrazione apostolica si prolunga. Ho visto in altre circostanze la stessa situazione, ma erano sempre circostanze eccezionali».

Da presidente della pontificia commissione per l’America Latina lei sicuramente conosceva il cardinale Jorge Mario Bergoglio molto meglio di altri. Le chiedo se la Chiesa fosse pronta ad avere un Papa giunto «dalla fine del mondo».
«Non so se la Chiesa fosse pronta, ma so, questo sì con convinzione, che la scelta è stata adeguata, perché papa Bergoglio ha portato un soffio nuovo, come un coraggio, uno spirito di riforma. Ha ripreso il Concilio Vaticano II, ha sviluppato il dialogo interreligioso e la fraternità universale, sviluppato l’interesse per le grandi questioni dibattute nel mondo, a partire dalla protezione della casa comune. È un uomo di grande leadership, anche spirituale. Direi anzitutto spirituale, e quindi, in questo senso, è stato ed è il Papa che la Chiesa aveva bisogno di sentire alla propria testa. È anche un Papa che ci ha un po’ scosso, che ci ha fatto uscire dalle nostre zone di comfort e dalle nostre abitudini. Il Papa che ha stimolato la partecipazione dai laici e la sinodalità, e ha combattuto certi abusi, certi difetti, tra cui il clericalismo».

Nel titolo del suo ultimo libro sono evocati «rischi e opportunità» per la Chiesa sinodale. Che cosa intende di preciso?
«Io penso che tutta la riflessione sinodale, l’ascolto che si è svolto durante gli ultimi 3, 4 anni, sono state una chance per la Chiesa. Questa concentrazione sull’ascolto, la partecipazione, la comunione in vista della missione, ha come risvegliato il senso che siamo tutti Chiesa, che i ministri ordinati - i quali occupano un posto così importante nella Chiesa cattolica - non devono pensare di portare avanti la Chiesa in modo troppo rigido, troppo direttivo, ma invitando, ascoltando e accogliendo la partecipazione dei laici con i loro carismi. Questo mi sembra molto positivo. Sul versante dei rischi, ci sono persone che immaginano la sinodalità come una “democratizzazione sbagliata” e che, di conseguenza, si chiudono. Non è una reazione sana, ma un rischio, appunto. Si sente che qualche divisione rimane attorno a questa tematica. E che c’è bisogno di sviluppare un dialogo per capire meglio e così andare avanti, come dice Francesco».

Quale sarà, a suo parere, il segno più profondo lasciato nella Chiesa dal pontificato di Francesco?
«In parte ho già risposto prima. Posso aggiungere che papa Francesco ha avviato una riforma del papato scegliendo di essere un uomo e un pastore vicino al popolo: togliere tutto ciò che crea distanza tra la sua funzione e il vissuto del popolo di Dio è stato un messaggio profondo, molto evangelico. Inoltre, il Papa è stato la voce dei poveri e degli emarginati, di quelli che soffrono. Tutta questa vicinanza gli ha fatto sentire le afflizioni della gente, e questo il popolo lo ha captato, lo ha capito. La gente ringrazia molto il Santo Padre per questa vicinanza, che trascende anche i mezzi di comunicazione, perché è un fenomeno spirituale. E a proposito dei mass media, bisogna anche dire che il Papa è stato molto presente in tutti i mezzi di comunicazione, una scelta che fa parte del suo spirito missionario».

Le condizioni di salute del pontefice hanno riaperto la discussione su una possibile rinuncia. Bergoglio ha scritto di considerare il ministero petrino «ad vitam» ma è un fatto che, anche per i Papi, la vita si allunghi e con essa crescano i problemi legati all’età. Lei crede che sarebbe utile stabilire un termine anagrafico per il mandato esecutivo del vescovo di Roma, così come accade per tutti gli altri vescovi e cardinali?
«È una riflessione degna di considerazione, mi sembra. Il Papa immagina il suo mandato ad vitam e non si dovrebbe spingerlo a presentare la rinuncia, ma una volta che si farà una riflessione globale dei cardinali sul passato, sulle condizioni presenti e sulle sfide del ministero petrino, in quel momento si potrà riflettere sul fatto che Benedetto ha rinunciato a 85 anni, Giovanni Paolo II è morto a 85 anni e che i vescovi normalmente presentano la rinuncia a 75 anni, pur potendo ricevere una proroga dal Papa. Che si faccia qualche riflessione sulla possibilità di fissare un limite anagrafico anche al vescovo di Roma, ripeto, è degno di considerazione».

Eminenza, lei è canadese ed è stato per 8 anni arcivescovo metropolita di Québec e primate del Canada. Che cosa pensa quando sente Donald Trump parlare del Canada come del 51. Stato USA?
«Mi fa un po’ ridere, ma non è molto comico. Da un sondaggio realizzato in Canada in questi ultimi giorni è emerso che, più o meno, soltanto il 10% della popolazione reagisce con un certo interesse alle parole del presidente Trump, gli altri respingono questa dichiarazione stravagante. Io non mi occupo molto di politica, sono un pastore, un teologo, ma vedo che talvolta la politica ha idee, mezzi o stili che possono essere più o meno discutibili. Penso anche che questo tipo di dichiarazioni siano un po’ pericolose, e forse non costruttive».

In che modo, allora, la Chiesa deve porsi di fronte a un sistema mondo che sta profondamente cambiando?
«Quanto sta accadendo è molto preoccupante, c’è un clima di incertezza, un clima teso e non si sa più come agire. Siamo vicini a un caos. La Chiesa è la voce della pace. Quando il Papa invoca la pace, prega per la pace, invita a lavorare per la pace, credo faccia ciò che la Chiesa deve fare. Siamo inoltre invitati più che mai a un’attività diplomatica più incisiva che nel passato: Francesco ha chiesto a molte personalità di intervenire, di fare missioni per manifestare la sollecitudine della Chiesa. Per la gente che soffre, per tutti quelli che sono vittime, come i migranti delle guerre».