Il caso Sangiuliano, «Una commedia del grottesco in cui il potere ha tentato di proteggere sé stesso»
Michele Prospero è uno dei più conosciuti e apprezzati studiosi italiani di comunicazione politica. Insegna alla Sapienza di Roma, dove è ordinario di Filosofia e scienza politica e di Filosofia dell’opinione pubblica. Con il professor Prospero analizziamo il «caso Sangiuliano», in particolare negli aspetti che riguardano il sempre delicato rapporto tra potere e informazione.
Professor Prospero, qual è la sua valutazione di filosofo della politica su quanto è accaduto attorno al caso dell'ormai ex ministro italiano della Cultura, Gennaro Sangiuliano? Non crede che, almeno dal punto di vista della comunicazione, la vicenda abbia alla fine assunto toni paradossali, soprattutto dopo il pianto in diretta del ministro?
«Sì, senza dubbio. Quello che è emerso, vista la figura particolare del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, è una sorta di legge del contrappasso che procura una inevitabile reazione di comicità. Tutta l’immagine di Sangiuliano, tutta la sua comunicazione, sono state fondate in questi due anni sulla base di una costruzione aulica del messaggio politico: il recupero di toni elevati; la retorica della tradizione, della storia, della cultura alta; i riferimenti a Dante Alighieri, e così via. Poi, l’intero grattacielo della narrazione è precipitato. Con un effetto che non ricorda certo la cultura alta, sin qui inseguita, quanto piuttosto l’avanspettacolo, l’operetta. È diventato, insomma, evidente il contrasto fra la pretesa di competere sul piano dell’egemonia culturale e comportamenti che destano unicamente ilarità; comportamenti che sono momenti del grottesco, tipici della commedia all’italiana».
Restiamo sul terreno della comunicazione politica e degli effetti di quest’ultima sull’opinione pubblica. Secondo lei, la lunga intervista al Tg1 RAI è stata efficace o, in qualche modo, ha aggravato il giudizio sull'ex ministro, facendo diventare ancora più evidente la goffa situazione in cui Sangiuliano si è cacciato?
«Sicuramente, l’intervista al telegiornale ha accentuato i toni della commedia del grottesco. La pretesa di rispondere in diretta televisiva a una questione che non era, forse, di grande politica, ma di costume, è stata un errore evidente. Tutto è precipitato ancora di più nell’avanspettacolo, proprio a causa del tentativo di uscirne con alcuni proclami, mostrando gli scontrini, addirittura con il pianto. L’intervista televisiva di Sangiuliano ha mostrato una strana combinazione di tragicità e di comicità, che si sono mescolate tra loro in modo surreale».
Nel suo libro Il comico della politica (Ediesse, 2010), riferendosi al linguaggio dell’ex premier Silvio Berlusconi, lei accennava al precipitare dell’etica pubblica. Pensa che quanto accade oggi sia conseguenza diretta dei cambiamenti introdotti nel linguaggio politico-istituzionale dal leader di Forza Italia? In altre parole, siamo di fronte agli effetti ritardati di quel crollo di etica politica che si è visto in Italia negli ultimi anni?
«Sì, ciò che è accaduto rispecchia questo progressivo scivolamento della politica verso forme di comunicazione che registrano una caduta della qualità delle classi dirigenti. Oltre al dato individuale di una personalità che sdrucciola nel grottesco, nella commedia, c’è anche la realtà di una caduta delle classi dirigenti che è preoccupante. La qualità della classe dirigente - e questo non è un dato soltanto italiano, riguarda infatti tutte le grandi democrazie occidentali - testimonia come la politica non abbia più grandi risorse culturali, e come abbia consumato rapidamente quelle che possedeva. La contaminazione con le forme dello spettacolo, con le forme delle pulsioni più elementari per aderire al cosiddetto momento populista, fa sì che la politica precipiti in una perdita di ethos, di carisma, di qualità».
Un cambiamento strutturale.
«Sembra, sì. Siamo di fronte a una politica che, inseguendo gli umori, le pulsioni più immediate, accoglie queste stesse pulsioni, queste cadenze di basso profilo intellettuale, come una componente strutturale. Ne deriva che il politico non si limita a giocare con le pulsioni più elementari, ma le interiorizza egli stesso. C’è, quindi, una incapacità di cogliere il tratto che il politico tradizionale aveva, cioè essere un modello, una costruzione politica positiva. La politica ha perso ethos perché non ha più, dietro di sé, la cultura politica che alimenta l’azione collettiva».
L’ex ministro Gennaro Sangiuliano, per tentare di salvarsi e di giustificare le proprie azioni, ha potuto utilizzare un mezzo potentissimo, il TG1 della RAI. E lo ha fatto, sostanzialmente, senza un reale contraddittorio, egli che è stato tra l’altro, fino a due anni fa, direttore di un telegiornale della Tv pubblica. L’opposizione lo ha accusato di populismo mediatico, di occupazione degli spazi televisivi. Dal punto di vista di filosofo dell’opinione pubblica, lei che giudizio dà?
«Il populismo dei politici è una maschera e non riesce ad occultare sino in fondo il fatto che, malgrado tutto, esiste una postazione di potere. Nel caso in questione, il grottesco della vicenda di Gennaro Sangiuliano è l’altra faccia della disponibilità di grandi strumenti di comunicazione pubblica e privata, i quali servono per proteggere chi detiene il potere. La disintermediazione, di cui spesso si parla, è a sua volta una maschera che convive con l’esistenza di grandi asimmetrie di potere. Non è vero che chi occupa il potere sia come noi: anche quando recita, questa comunicazione dell’orizzontalismo, dell’identificazione assoluta con la gente, ha comunque risorse che lo distaccano dal popolo. In questo caso, anche un politico grossolano che rientra nell’arte della commedia ha comunque beneficiato della protezione degli strumenti del potere politico. Strumenti che, come dire, lo mettono in una posizione diversa da quella del cittadino comune con cui intendeva identificarsi».
Le faccio un’ultima domanda, riprendendo il titolo del suo libro. Dopo due settimane di indiscrezioni, rivelazioni, retroscena, fino alle dimissioni di ieri, siamo ancora nell’àmbito del comico della politica o siamo piuttosto finiti nel recinto del tragico, inteso proprio come quel «decadimento tragico della politica» di cui lei parlava prima?
«In Silvio Berlusconi il comico era una risorsa studiata per la comunicazione, utilizzata per demolire la serietà del professionismo politico: la barzelletta, la comunicazione per divertire, le metafore a sfondo sessuale e sportivo erano le manifestazioni di una politica aziendalista che aveva bisogno di nascondere il volto del potere economico con il gioco del capo capace di sedurre. Nel caso di Sangiuliano, invece, abbiamo avuto una comunicazione che ha mostrato quanto il re fosse nudo, come nulla ci fosse oltre l’apparenza. Ecco, l’apparenza è la vera caratteristica del ceto politico odierno, e quindi il comico si tramuta in qualcosa di estremamente tragico. È il vuoto assoluto di una politica che mostra di non avere strumenti costruttivi e capacità di riflessione».