Locarno76

«Il cinema messicano come non si è visto mai»

L'intervista allo storico del cinema Olaf Möller, curatore della Retrospettiva
© Courtesy of Filmoteca UNAM
Antonio Mariotti
31.07.2023 06:00

Potrebbe sembrare un «passo indietro» rispetto alla sontuosa retrospettiva dedicata lo scorso anno a Douglas Sirk, ma quella intitolata «Ogni giorno uno spettacolo - Le molte stagioni del cinema popolare messicano» che entra nel vivo già mercoledì a Locarno non sarà certo da meno, come ci ha raccontato il suo curatore: lo storico del cinema Olaf Möller.

E le sorprese non mancheranno di certo. Basti pensare che, ci suggerisce Möller, la storia del cinema messicano s’interseca persino con l’emigrazione che, già nel 18. secolo, costringe molte famiglie del Nord Italia ad emigrare verso la Germania. È il caso dei Bolongaro di Stresa che dopo varie peripezie si installano a Francoforte dove fanno fortuna con il commercio e sono presenti ancora oggi. Un discendente della stirpe, Alfred Theodor Bolongaro Crevenna, nel 1937 emigra in Messico per sfuggire al nazismo. E oltreoceano diventa uno dei registi più prolifici della storia del cinema messicano, realizzando, con il nome di Alfredo Bolongaro Cravenna, oltre 150 film sull’arco di 50 anni.

Una storia quasi incredibile questa, ma cosa l’ha spinta prima di tutto ad allestire questa retrospettiva?
«Diciamo subito che non si tratta della prima retrospettiva dedicata al cinema messicano che si tiene in Europa: Locarno ne organizzò una addirittura negli anni ‘50. La questione principale ruota attorno alla domanda: come narrare questa storia? E sono quasi sicuro che la storia del cinema messicano del periodo tra gli anni Quaranta e Sessanta non è mai stata raccontata come la si vedrà a Locarno 76. Normalmente questo periodo viene definito come l’epoca d’oro del cinema messicano, ma secondo me si tratta di una definizione influenzata troppo da parametri politici legati al regime del presidente Cardenas. C’è pero un aspetto fondamentale di questo periodo e di questa situazione che di solito non viene preso in considerazione, ovvero il cosmopolitismo del cinema messicano di quel periodo. Molti registi giunsero nel Paese e vi lavorarono, sia a lungo sia solo per un breve periodo. Era un universo molto dinamico che si arricchiva continuamente di nuove influenze provenienti in particolare dalla Spagna e dall’Argentina, ma anche da altri Paesi europei. Il cinema messicano di quel periodo cambia quindi di continuo e cambia le persone che vi lavorano anche per poco tempo. Si tratta di un aspetto poco studiato finora, poiché la maggior parte dei registi di allora realizzavano film di genere».

Da questo punto di vista, si può paragonare il Messico con l’Italia del dopoguerra, in cui si producono molti film di genere apprezzati dal pubblico e, ogni tanto, un capolavoro?
«Sicuramente, perché in entrambi i casi sono coinvolte le stesse persone in un mix di umiltà e di genio nell’ambito di un sistema dove tutti lavorano senza sosta su film di ogni tipo. Ciò che oggi purtroppo non accade quasi più. Allora il legame era molto forte tra la comunità del cinema e il pubblico, ciò che oggi pare un’utopia perduta».

Qual era la circolazione internazionale della produzione messicana di quegli anni?
«Si può dire che fosse mondiale: i film circolavano non solo in Sudamerica ma anche in Italia o in Germania. In particolare venivano distribuiti molti film di genere, come gli horror o i western che venivano regolarmente doppiati. Ma d’altra parte non bisogna dimenticare che il cinema messicano è sempre stato presente ai festival internazionali e ha spesso ottenuto delle nomination agli Oscar nella categoria dei film in lingua straniera. Molti film messicani erano quindi visti e conosciuti fuori dal Paese. Eppure il solo Emilio Fernandes viene ricordato oggi, quando invece ci sono molti altri registi che meritano di essere conosciuti. È una situazione poco comprensibile, poiché per altri Paesi che hanno una produzione simile, penso ad esempio al Giappone, negli ultimi 40 anni l’interesse è stato molto maggiore».

E ovviamente il cinema messicano di quel periodo poteva contare su un importante star system...
«Certo, ed era lo star system a farla da padrone, se così si può dire. Ho raccolto dei racconti di produttori dell’epoca a proposito delle umiliazioni che le grandi attrici facevano regolarmente subire sul set ai registi machisti. Di certo le stelle del cinema messicano erano molto potenti».

Per la preparazione della retrospettiva è stato quindi complicato scegliere i 36 titoli che vedremo a Locarno?
«La cosa divertente è che la selezione finale rispecchia nella misura del 90% la prima scelta che abbiamo fatto (Olaf Möller si è avvalso della collaborazione di Roberto Turigliatto: n.d.r.). È chiaro che un’analisi seria di questo periodo del cinema messicano avrebbe necessitato di mostrare almeno cinque volte più film. Sapevamo che era impossibile, che i titoli potevano essere al massimo 36, e quindi abbiamo iniziato a prendere in considerazione ciò che reputavamo importante nell’ottica delle nostre idee. Ad esempio per mettere in evidenza il fatto che il cinema classico è sempre anche un laboratorio, all’interno del quale esiste anche la sperimentazione e ogni tanto nascono cose assolutamente folli alla ricerca di nuove vie a livello formale. Poi c’erano i film che non potevano non esserci dal nostro punto di vista, come ad esempio Muchchas de uniforme di Alfredo Bolongaro Crevenna che è il remake di un classico lesbico del cinema tedesco. E così via, si sono costruite delle relazioni tra un film e l’altro, rinunciando ad esempio a prendere in considerazione la filmografia di 50 registi scegliendo un film per ciascuno di loro. L’importante era individuare un percorso che potesse suscitare l’interesse del pubblico di oggi, senza venire meno alla dimensione della storia conosciuta del cinema messicano. Ponendosi però delle domande sulle ragioni per cui finora sia stata raccontata così. È un discorso che ha interessato molto anche i nostri interlocutori messicani della Filmoteca UNAM che ci hanno aiutato in maniera incredibile, restaurando e digitalizzando un gran numero di pellicole che si vedranno a Locarno».

«Ogni giorno i film saranno legati fra loro»

Olaf Möller, l’approccio innovativo sviluppato per questa retrospettiva si ripercuote anche sulla programmazione nel corso di Locarno 76. Ad esempio, il primo giorno si vedranno quattro film in relazione con il mondo dello sport e della corrida. Ogni giorno sarà una nuova avventura per gli spettatori?
«Per ciò che riguarda le proiezioni di mercoledì 2 agosto, tutto è nato dal fatto che eravamo obbligati a proiettare El gran campeon al Kursaal (e non al Gran Rex, sede fissa della retrospettiva: ndr.) a quel dato orario. Abbiamo quindi pensato alle connessioni possibili con questo film, tenendo conto anche della vicinanza tra spettacolo sportivo e spettacolo cinematografico nel Messico di quell’epoca. Il secondo giorno invece si può definire come il giorno delle avanguardia, con tre film che portano avanti delle sperimentazioni formali diverse. Ogni giornata di proiezioni è quindi caratterizzata da focus più o meno espliciti. Il pubblico potrà così scoprire dei gruppi di film coerenti e non passare da un film all’altro secondo un criterio puramente cronologico».

Qual è l’influenza che esercita questo periodo del cinema messicano sui registi messicani di oggi, in particolare sui più celebri come Alfonso Cuarón, Alejandro Iñárritu o Guillermo del Toro?
«Quel che si può dire è che in effetti uno dei maggiori storici e conoscitori del cinema messicano classico è Guillermo del Toro che ha sostenuto anche il restauro di alcune pellicole. E non è il solo cineasta messicano di oggi ad essere interessato alla storia del cinema nazionale e nella valorizzazione di questo patrimonio. In generale, molte persone ricordano questi film e nel mondo del cinema messicano ne rimangono molte tracce, tanto che si può essere sicuri che i cineasti di oggi sanno da dove vengono».

Potrebbe indicarci, per finire, tre film della retrospettiva assolutamente da non perdere?
«No, non posso: né tre, né cinque, sono tutti e 36 o niente. Tutti mi fanno questa domanda ma rifiuto sempre di dare una risposta. Sarebbe come chiedere a un padre quale dei suoi figli preferisce e in questo caso reputo di avere 36 figli che sono tutti i più belli del mondo!».

Quindi bisogna lasciarsi sorprendere?
«Assolutamente, ogni giorno si potrà scoprire qualcosa di leggermente diverso rispetto al giorno prima, senza passare di palo in frasca ma con una visione d’insieme che speriamo possa essere utile a tutti». 

In questo articolo: