«Il cinema per me è questione d'autore»
Il panorama del cinema d’autore sarebbe meno ricco senza le figure chiave che consentono ai registi più audaci di portare tutta la loro indipendenza creativa sul grande schermo. Una di loro è certamente Marianne Slot, produttrice francese che ha legato il suo nome a quello di Lars von Trier, con cui collabora dal 1995, ma anche al cinema latino-americano e a nomi quali Lucrecia Martel e Lisandro Alonso.
Marianne Slot, complimenti per il suo instancabile lavoro di ricerca e sostegno di voci nuove e alternative al cinema mainstream. Come è arrivata a «innamorarsi» di Lars von Trier?
«Sono originaria della Danimarca, ma a vent’anni mi sono spostata in Francia, perché avevo bisogno di allargare i miei orizzonti. Ho cominciato a lavorare subito in una società nel settore della distribuzione. Lì ho incontrato Lars che stava lavorando a Epidemic, il suo secondo film. In quel contesto ho scoperto che, come lavoro, mi sarebbe piaciuto essere vicina al processo creativo e all’atto produttivo di un film, cosa che ho fatto subito dopo fondando nel 1993 la mia casa di produzione cinematografica Slot Machine. Nel 1994 il partner di Lars era a Parigi alla ricerca di coproduzioni internazionali. La cosa ovviamente mi interessava molto, ma ero giovane e con poca esperienza, e così si rivolsero ad altri. Però, fortunatamente per me, la cosa non funzionò e così io fui contattata di nuovo e questa volta con successo. Cominciai con Breaking the Waves un’avventura di coproduzione francese che continua ininterrottamente da allora. Inutile dire quanto, lavorare al fianco di un maestro del genere, sia stata una cosa estremamente importante non solo per la mia carriera, ma anche dal punto di vista umano e creativo. Avere l’occasione di sedermi al suo fianco, parlare con lui, leggere le sceneggiature è stato illuminante e istruttivo, perché contemporaneamente ricevevo altri progetti e la luce di quegli incontri con il maestro si riverberava sul livello delle aspettative e delle esigenze di produzione».
Il regista danese, a cui, purtroppo, è stato diagnosticato il Parkinson, avrebbe detto di non essere in grado di girare altri film. Cosa ne pensa?
«Non ci crederò (ridendo) finché non lo vedrò morto! È un tale incredibile artista che lo resta comunque, anche se non dovesse più fare film. Comunque ha annunciato di avere in mente un altro progetto, che si chiamerà Hook Island, in collaborazione con Christopher Book, un altro regista danese. Si tratterà di riprese dove si parlerà di cinema sotto forma di lezioni, molto strutturate, almeno nelle sue parole (ancora ridendo)... Sono davvero eccitata all’idea di qualcosa che dedicherà a tutti noi, permettendoci di entrare nel suo universo creativo, di accostarci alle sue fonti di ispirazione».
Quali sono le cose che la colpiscono nello scegliere i film: il tema, la sceneggiatura, i registi, o altro?
«Slot Machine è una casa di produzione completamente orientata sugli autori. Per me non è mai stata una questione di sceneggiatura o di storia, ma di autori e dei prodotti che stanno loro a cuore. Lars segue qualcosa che è un progetto di vita: lo si vede dalla struttura del suo lavoro di artista. Quando io scelgo un progetto è perché ci vedo qualcosa che implica una nuova visione, che esplora nuove vie, che lavora sul linguaggio cinematografico. Le forme tradizionali non sono davvero interessanti per me, c’è già chi le sa usare molto bene. Io sono piuttosto una esploratrice, mi piace avventurarmi su territori strani, anche bizzarri a volte. Questo comporta enormi rischi, e non sempre si vince, o meglio non sempre si arriva dove si vuole, ma almeno io sento che sono riuscita ad arrivare da qualche parte, a esplorare aspetti diversi. È questa la linea che ho sempre voluto seguire».
Sarà più facile o più difficile il futuro per un tipo di cinema di ricerca ed esplorazione come quello di von Trier e quello che lei produce?
«È diventato tutto più difficile per il cinema di ispirazione. Ci sono dei format ripetitivi, degli algoritmi nei quali non rientra nessuna delle cose che faccio io. Le faccio un esempio. Quando ho avviato la produzione di La donna elettrica (Woman at War), di Benedikt Erlingson (che si potrà vedere oggi pomeriggio al Grand Rex, n.d.r.) trovare i finanziamenti è stato molto difficile. La prima cosa che ci veniva richiesta era un’eroina femminile più giovane, sulla trentina, non sulla cinquantina; poi la musica era ritenuta troppo strana; la forma del racconto inusuale e così via. Il percorso per ottenere delle partecipazioni alla fine è durato più di un anno, ma noi abbiamo tenuto duro e alla fine il film ha avuto un grande successo. Io continuo a dire che si arriva all’eccellenza solo attraverso un percorso. Quanti cineasti hanno tratto ispirazione da von Trier? O da registi da noi prodotti, come Naomi Kawase, Lucrecia Martel, Lisandro Alonso che hanno aperto nuove strade?».
Come si può aiutare il cinema di innovazione?
«Non è tanto una questione di denaro, quanto di scelte politiche. Avere o proteggere la creatività è una scelta politica, non economica. In Europa tutte le istituzioni che sostengono il cinema, come Euromax in primo luogo, devono essere sostenute e rafforzate, permettendoci di lavorare insieme, al di là delle barriere nazionali. Anche le strutture nazionali devono sostenere le produzioni, perché siamo così prosciugati che abbiamo dato tutto, io personalmente ho dato tutto quello che avevo. Abbiamo bisogno di strutture che capiscano che cosa significa avere un cinema nazionale e un cinema europeo dove si possano sviluppare talenti. E i talenti non nascono dall’oggi al domani. Abbiamo bisogno di diversità e la gente lo sente, questo bisogno di essere stimolata anche intellettualmente. Pensi a una pellicola come Eureka di Lisandro Alonso, qualcosa di anticommerciale per eccellenza, data la sua struttura scarsamente narrativa: eppure quelli che l’hanno visto l’hanno trovato veramente interessante. Il cinema deve alimentare il desiderio, la curiosità, quel senso di uscire dal film e volere di più».