Il dopo Draghi può partire
Cerimonia solenne, ieri, a Roma, per il primo «atto formale» della diciannovesima legislatura: la nomina dei presidenti del Senato - già andata a buon fine con l’elezione di Ignazio La Russa - e quella della Camera dei deputati, su cui il «plenum» torna a votare quest’oggi (ieri non è stato raggiunto il quorum dei due terzi dei votanti).
La seduta inaugurale a Palazzo Madama, la prima dalle elezioni dello scorso 25 settebre - con il Parlamento in formato «light» ora composto da 200 senatori (anziché 315) e 400 deputati (al posto di 630) -, è stata presieduta dalla senatrice a vita Liliana Segre e ha visto, appunto, la nomina del candidato di Fratelli d’Italia alla seconda carica istituzionale, per importanza, del Paese. La Russa è stato eletto con 116 voti. I senatori presenti erano 187, i votanti 186, la maggioranza richiesta era di 104 voti.
Non è però andato tutto liscio. Il centrodestra, infatti, si è presentato a Palazzo Madama tutt’altro che coeso. Il senatore di FdI è sì stato eletto presidente del Senato, come ha fortemente voluto Giorgia Meloni, ma col soccorso - «anonimo» - dell’opposizione. E se è vero, come ha affermato la futura premier, che a contare «sono i risultati», il malumore reso evidente da Forza Italia con il suo mancato sostegno, potrebbe ora avere strascichi sulla trattativa, tutta aperta, sul Governo. C’è chi ha ipotizzato che Forza Italia possa addirittura presentarsi da sola alle consultazioni.
Salvini chiede compattezza
«Il centrodestra mostrerà compattezza, lealtà e unità», aveva pronosticato il leader della Lega Matteo Salvini, smentito poi al voto. Il «Capitano» aveva riunito i suoi senatori e aveva annunciato il consensuale «passo di lato» di Roberto Calderoli per la massima carica del Senato. Un segno di distensione nella maggioranza, dopo le tensioni degli ultimi giorni. Negli stessi istanti, però, a Montecitorio il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, si era di fatto scontrato di nuovo con Giorgia Meloni, dopo la fumata nera di mercoledì a Villa Grande. In quell’incontro, entrambi avevano assicurato che «è andato tutto bene, come sempre». La Russa è stato eletto presidente, ma la lacerazione della coalizione c’è stata e, a quanto pare, non sarà semplice da ricomporre. C’è «disagio» per i «veti» e bisogna dare «un segnale», è la linea che è prevalsa tra gli azzurri. Forza Italia non ha risposto alla chiamata e ha fatto mancare 16 suoi voti a La Russa, che pure è stato votato da Elisabetta Casellati (che lo ha preceduto sullo scranno più alto di Palazzo Madama) e dallo stesso Berlusconi. Secondo l’anziano leader, è prevalso «lo spirito di coalizione» nonostante, questo, non sia comunque bastato a contenere «l’insofferenza» emersa tra i senatori di Fratelli d’Italia. L’ex premier è stato poi costretto, obtorto collo, ad ammettere che non ci sarà «nessun ministero» per la discussa Licia Ronzulli.
Nel frattempo, a Palazzo Madama è scattata la caccia ai colpevoli, quasi in contemporanea all’applauso che ha accompagnato l’elezione di Ignazio La Russa: superato il quorum dei 104 voti, infatti, il conteggio è continuato e i numeri si sono mostrati ben più ampi della somma (che sarebbe peraltro risultata insufficiente alla prima votazione) di quelli di Lega e FdI. «Non siamo stati noi», ha messo le mani avanti per primo Matteo Renzi. Sarebbe stato il centrodestra alle prese con «regolamenti dei conti» interni, ha osservato serafico. I 9 del Terzo Polo, ha assicurato anche Carlo Calenda, hanno votato compatti scheda bianca. Stesse indicazioni dal PD.
Letta: «Irresponsabilità»
Comportamento «irresponsabile oltre ogni limite», è la critica espressa dal leader del Partito democratico Enrico Letta, che ha osservato come «una parte dell’opposizione non aspetta altro che entrare in maggioranza». Un messaggio simile è filtrato dai rappresentanti grillini, che hanno puntato il dito contro «la finta opposizione fatta dei soliti giochini». Bilancio finale: «maggioranza divisa» ma anche «opposizione divisa», ha sintetizzato Pierferdinando Casini, consigliando a tutti «qualche corso di formazione politica». Lo stesso commento è stato espresso dal dem Dario Franceschini («chi l’ha fatto non capisce nulla di politica»), tra i primi indiziati vi è Renzi, che però a scanso di equivoci ha assicurato di non avere «alcuna intenzione» di fare il vicepresidente del Senato. E proprio sull’elezione dei vice, gli addetti ai lavori cercano di individuare qualche forma di «scambio». Occorrerà vedere cosa succederà alla Camera, dove Matteo Salvini - dopo avere di nuovo incontrato nel tardo pomeriggio Meloni - ha schierato il suo vice Lorenzo Fontana al posto del nome che fino a mercoledì era in pole: quello di Riccardo Molinari, che rimarrà però al suo posto a fare il capogruppo. È sfumata così l’ipotesi, pure circolata in giornata, di Giancarlo Giorgetti quale terza carica dello Stato, il quale resta però pronto per andare al MEF. Ma quella per i ministeri, a questo punto, sarà tutta un’altra trattativa.
Ipotesi sul nuovo Governo
I partiti proseguono le loro discussioni in modo serrato. Giancarlo Giorgetti ha già ricevuto il sostegno diretto di Giorgia Meloni ( «penso che sarebbe un ottimo ministro dell’Economia»). Per Forza Italia si ipotizzano quattro posti, inclusa la Farnesina, destinata ad Antonio Tajani, ma non la Giustizia, né un ruolo di Governo, come visto, per Licia Ronzulli. Giorgia Meloni pare essere uscita dalla fase più tesa della trattativa che verrà con un alleato «rinforzato», Matteo Salvini (verso le Infrastrutture), e uno «ridimensionato», Silvio Berlusconi. La voglia di negoziare del Cavaliere ci sarebbe ancora nonostante la delusione. «Un Governo forte», parole sue, è troppo importante per tutto il centrodestra.