Il franco vola, l’export fatica
Vent’anni fa 1 euro si scambiava con 1,55 franchi. Nel 2007 la moneta unica ha addirittura superato la soglia di 1,70 franchi. Poi, la valuta svizzera ha progressivamente guadagnato terreno sulle principali divise di riferimento: dollaro, sterlina ed euro. Il resto lo hanno fatto l’invasione russa in Ucraina e la guerra in Palestina. Due eventi che hanno spinto il franco verso l’alto. Nel primo caso guadagnando, nel marzo del 2022, la parità con l’euro; nel secondo portando stabilmente il tasso di cambio sotto la soglia di 0,95 franchi per un euro. Durante il periodo natalizio, poi, è arrivato anche il minimo storico, quando l’euro, seppur brevemente, è scivolato sotto la soglia dei 93 centesimi di franco.
Redditività a rischio
Uno stimolo per chi intende fare acquisti fuori dai confini nazionali, che pone tuttavia l’industria svizzera di fronte a una serie di interrogativi, in primo luogo legati al rischio di una diminuzione della domanda estera: «Gli ordinativi sono diminuiti drasticamente e le esportazioni verso i mercati di riferimento continuano a calare», conferma al CdT Stefan Brupbacher, direttore di Swissmem, l’organizzazione mantello dell’industria metalmeccanica svizzera. Con l’apprezzamento del franco, i prodotti svizzeri sul mercato internazionale diventano infatti più costosi. Il rischio di una riduzione della competitività è quindi reale.
Un esempio pratico è la Bystronic di Zurigo: l’azienda di ingegneria meccanica negli scorsi giorni ha comunicato «che solo nella prima metà del 2023 l’apprezzamento del franco è costato quasi 30 milioni di franchi di fatturato» e che «complessivamente si prevede un impatto negativo sull’utile operativo di diversi milioni di franchi». Insomma, per i prodotti Swiss Made imporsi sui mercati internazionali diventa più difficile.
«Quantificare la perdita di redditività a causa dell’apprezzamento del franco, fornendo una percentuale unica per tutte le aziende, è tuttavia impossibile», commenta Brupbacher. «Questo perché gli impatti variano considerevolmente in base al settore, alle strategie aziendali individuali e alle diverse condizioni di mercato». Non solo. «Sulla bilancia commerciale bisogna inserire anche i vantaggi legati all’import di materie prime o semilavorati. Con il franco forte, l’acquisto diventa più economico».
Congiuntura e investimenti
In generale, però, i timori legati all’apprezzamento del franco sono comuni e riguardano tutto il settore, alle prese con un rallentamento generale, soprattutto nei mercati di riferimento, ossia Germania e Cina. Brupbacher non esita a parlare di «recessione industriale». Ed è proprio in questo contesto congiunturale che va inserito il discorso sul franco forte: «Negli ultimi due mesi il franco svizzero si è rafforzato in maniera significativa e repentina. In un mercato mondiale, dove la pressione sui margini è già estremamente elevata, esportare i nostri prodotti diventa molto difficile». I settori più esposti sono quelli legati all’industria dell’auto; resiste invece il lusso, in particolare il mercato orologiero, l’aeronautica e tutto ciò che ruota attorno alla svolta ambientale. «La Svizzera per essere competitiva sul mercato mondiale deve produrre tecnologia di punta e per farlo deve continuare a investire nell’innovazione», spiega Brupbacher. «Il nostro segreto non è produrre milioni di pezzi, ma fornire le macchine che saranno al vertice della catena produttiva di altri Paesi, Cina compresa».
«Richieste in aumento»
Ad ogni modo, con un franco sopravvalutato di quasi il 7% e con le banche centrali che hanno aumentato il costo del denaro, è indispensabile mettere in atto una serie di correttivi: «Laddove è possibile, le aziende riducono i costi di produzione, diversificano i fornitori e, come ultima opzione, chiedono il lavoro ridotto». Uno strumento a cui un numero crescente di aziende sta facendo ricorso. «La disoccupazione parziale è in crescita», osserva il direttore di Swissmem. «In estate era molto bassa. Ma negli ultimi mesi c’è stato un aumento significativo. Ci aspettiamo che questa tendenza proseguirà anche nei prossimi mesi». Nella lista delle grandi aziende che hanno fatto ricorso al lavoro ridotto figurano anche la Riri di Mendrisio, la Georg Fischer, soprattutto il sito produttivo di Losone, oltre alla Phoenix Mecano. «Il lavoro ridotto è uno strumento importante, pertanto chiediamo alla Confederazione e ai Cantoni di agevolarne l’uso evitando complicazioni burocratiche». Ma se l’apprezzamento del franco dovesse proseguire? Esiste una soglia critica per le aziende? «Non possiamo dire che sotto i 90 centesimi esportare diventa impossibile. Anche perché ciò che conta è il valore reale del franco, comprensivo dei livelli di inflazione, e non quello nominale. Ad ogni modo, è importante che il franco svizzero non cresca troppo velocemente come accaduto negli ultimi due mesi». Ma quanto è concreto il rischio di delocalizzazione? «Il rischio esiste, ma non riguarda tanto la delocalizzazione della produzione, quanto gli investimenti. Se un’azienda deve investire, si chiede dove è più conveniente farlo. Il valore del franco è uno dei fattori che influenza la scelta, ma non è l’unico che viene preso in considerazione».
«La disoccupazione parziale in Ticino è ancora contenuta»
Ma che cosa dicono i dati sul lavoro ridotto in Ticino? Negli ultimi sei mesi, da maggio 2023 a ottobre 2023 (l’ultimo dato disponibile), il numero mensile delle aziende che si sono avvalse dell’indennità per il lavoro ridotto varia da un massimo di 10 a un minimo di 4. Il confronto su base annua mostra una diminuzione delle richieste: «I dati degli ultimi mesi del 2023 sono inferiori a quelli registrati negli stessi mesi del 2022, dove vi era ancora un effetto residuo dettato dalle conseguenze della pandemia», osserva al CdT Stefano Rizzi, direttore della Divisione dell’economia. Più interessante, quindi, il confronto con il 2019: «In questo caso, possiamo affermare che vi è un ritorno ai livelli pre-pandemici delle aziende che beneficiano delle indennità in Ticino», prosegue Rizzi. Se si osservano i dati medi annuali, nel 2019 le aziende che si sono avvalse della misura erano 6; nel 2020 erano 5.484; nel 2021 erano 1.945; nel 2022 erano 172; al momento, nel 2023, sono 8. «È possibile che questa cifra salga ancora leggermente, visto che le aziende hanno tre mesi di tempo per inoltrare i propri conteggi. Per quanto concerne le aziende che hanno effettivamente riscosso l’indennità, anche ragionando sulle cifre medie annuali, vediamo che nel 2023 vi è un ricorso a questa misura in linea con quanto registrato prima della pandemia», commenta ancora Rizzi. Una dinamica che, in generale, riscontriamo anche a livello nazionale e che si riflette sul numero dei lavoratori toccati dalla misura. Nel 2019, in Ticino, sono stati in tutto 256; nel 2023, stando ai dati elaborati fino a ottobre, sono 286. Che dire invece degli ultimi mesi? Ancora Stefano Rizzi: «I servizi non hanno registrato un particolare aumento dei pre-annunci per ottenere l’autorizzazione al lavoro ridotto da parte delle aziende».
Margini da sfruttare
«Per quanto il numero delle richieste sia ancora esiguo, la situazione può cambiare rapidamente», commenta Stefano Modenini, direttore di AITI. Secondo il quale il Cantone dovrebbe utilizzare il margine di apprezzamento disponibile per accordare le indennità ad alcune aziende in difficoltà. «Recentemente abbiamo scritto al Governo per fare presente che la combinazione di diversi fattori - pandemia, conflitti bellici e congiuntura - non dovrebbe indurre a considerare queste situazioni e le loro conseguenze come un semplice rischio aziendale. Dal Cantone e dalla Confederazione ci attendiamo la giusta flessibilità. L’alternativa potrebbe essere quella che le aziende siano obbligate a rivedere l’organico».