A 75 anni dalla liberazione

Il gelido silenzio di Auschwitz che tiene sveglia la nostra memoria

Il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa entravano nel campo di concentramento mettendo fine all’orrore
Fabio Pontiggia
Fabio Pontiggia
27.01.2020 09:49

Almeno una volta nella vita ad Auschwitz bisogna esserci stati. Sappiamo tutto di questo luogo del male. Abbiamo letto tanti libri e visto tanti film e documentari. Gli storici ci hanno detto quante persone sono state recluse e segregate lì, quante non ne sono più uscite. Un’enormità. Ma un conto è documentarsi da fuori, altra cosa è entrarci di persona. Almeno una volta bisogna provare il brivido storico di varcare il cancello d’entrata camminando lentamente sotto l’insegna «Arbeit macht frei». E poi di andare a Birkenau, percorrere la Bahnrampe, voltarsi e guardare in silenzio quel binario che sbuca dall’entrata sotto la torre di controllo. È un’esperienza angosciante. Vi si percepisce proprio il «nulla pieno di morte» (Primo Levi, La tregua). Non ci si capacita di quel che la mente e l’animo umano abbiano potuto concepire e attuare contro persone che sono state private di tutto e trasformate in un numero tatuato sull’avambraccio. La loro colpa? Essere ebrei, soprattutto. Ma anche prigionieri polacchi e russi, dissidenti liberali o comunisti, o ancora omosessuali, zingari, testimoni di Geova.

Eppure quest’infamia è accaduta nella nostra Europa, culla della democrazia, dapprima di quella degli antichi e poi di quella dei moderni, fucina del diritto e del costituzionalismo che hanno mandato in soffitta l’assolutismo (cioè il potere arbitrario dell’uomo sull’uomo, proprio così), palestra delle grandi concezioni filosofiche che hanno trasformato il mondo, sede della cristianità nelle sue varie confessioni, produttrice del sapere con le sue università, creatrice delle arti e delle lettere con i loro inarrivabili capolavori. Auschwitz è arrivato dopo, non prima che tutto questo divenisse parte del patrimonio di civiltà del Vecchio continente. Ci si chiede come sia stato possibile. L’inquietudine, lo sconcerto, l’orrore hanno il sopravvento nel rispondere.

Il 27 gennaio del 1945, esattamente 75 anni fa, il campo di concentramento (Auschwitz 1), quello di sterminio (Auschwitz 2 Birkenau) e quello di lavoro (Auschwitz 3 Monowitz) vennero liberati dalle truppe dell’Armata Rossa. Nell’avanzata degli eserciti schierati contro l’agonizzante regime nazionalsocialista arrivarono prima i soldati di Stalin. Per questo, non per il mito di Jalta, la Polonia non ritrovò subito la libertà, ma fu costretta a subire per altri quarant’anni un nuovo totalitarismo.

La Giornata della memoria di questo 2020 assume un significato particolare. Il prossimo anniversario canonico, quello del centenario, nel 2045, molto verosimilmente non potrà più contare sulla testimonianza dei sopravvissuti. Non ce ne saranno più. La loro memoria viva non ci potrà più parlare direttamente. Dovremo fare affidamento solo sulla memoria storicamente ricostruita e documentata. Sarà ancora più importante andare almeno una volta, di persona, ad Auschwitz, per vedere con i propri occhi, calpestare con le proprie scarpe, toccare con le proprie mani, respirare con i propri polmoni, ascoltare con le proprie orecchie il silenzio che si impone alle nostre turbate coscienze all’interno di quell’universo concentrazionario, in ogni suo angolo.

Ci siamo stati il 6 dicembre scorso. Una giornata fredda, con una brezza pungente, ma c’era il sole, il cielo era terso, di un azzurro incredibilmente luminoso. Era il giorno della visita ufficiale di Angela Merkel, accompagnata dal premier polacco Mateusz Morawiecki. «Crimini che la mente umana neppure può afferrare» disse la cancelliera tedesca. «Per lo sgomento causato da ciò che a donne, uomini e bambini è stato fatto in questo posto, in realtà bisognerebbe ammutolire. Quali parole possono rispondere a questo cordoglio? Eppure tacere non può essere la nostra unica risposta. Questo luogo ci obbliga a tenere sveglia la memoria» disse ancora Angela Merkel.

La nostra coscienza di europei ha sussultato più volte quel giorno. La prima è stata davanti al cancello d’entrata che porta ai blocchi. Chissà perché, ma ci aspettavamo qualcosa di più lugubre, di più minaccioso, di più opprimente. Il cancello di Auschwitz è invece un normale, banale cancello. Ecco: è proprio quella banalità, con la scritta «Il lavoro rende liberi», a colpire l’animo come una lama tagliente. È la «banalità del male» così bene e crudamente descritta da Hannah Arendt nel magistrale resoconto sul processo ad Adolf Eichmann, l’Obersturmbannführer delle SS, capo dell’ufficio B4 della Geheime Staatspolizei, responsabile dell’organizzazione per la deportazione degli ebrei nei campi di concentramento. Durante il processo svoltosi nel 1961 a Gerusalemme per crimini contro l’umanità, Eichmann disse che il suo era stato un lavoro amministrativo come tanti altri, un lavoro normale, una routine, che moralmente non lo aveva impegnato né compromesso, perché lui aveva eseguito le direttive che giungevano dall’alto.

Ritroviamo questa psicologia autoassolutoria nel memoriale che Rudolf Höss, il primo comandante del campo, scrisse in prigione prima dell’esecuzione della condanna a morte avvenuta il 16 aprile 1947 (Comandante ad Auschwitz, pubblicato nel 1958). «A quel tempo - sono le agghiaccianti parole di Höss - non riflettevo: avevo ricevuto un ordine ed era mio dovere eseguirlo. Non potevo permettermi di giudicare se questo sterminio in massa degli ebrei fosse o no necessario, la mia mente non arrivava tanto in là. Se il Führer in persona aveva ordinato la “soluzione finale della questione ebraica”, un vecchio nazionalsocialista, e tanto più un ufficiale delle SS, non poteva neppure pensare di entrare nel merito. “Il Führer comanda, noi obbediamo”, non era certo una frase né uno slogan per noi. Era un concetto preso terribilmente sul serio». È questa quella che Hannah Arendt ha definito la «spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male», ciò che ha reso possibile il «lungo viaggio nella malvagità umana» di cui il cancello di Auschwitz rappresenta simbolicamente la porta d’ingresso.

È difficile trovare le parole per quel che si prova in molti angoli di Auschwitz. Li si osserva e vi si passa in un silenzio tormentato. La macabra contabilità dello sterminio ci dice che le vittime, solo qui, sono state un milione e centomila, in base alle approfondite e accurate verifiche dello storico Franciszek Piper, direttore del Dipartimento di ricerca storica del Museo di Auschwitz. I loro nomi, con quelli delle altre centinaia di migliaia di deportati morti negli altri luoghi della macchina infernale per la soluzione finale, sono custoditi nel Blocco 27. Al centro di un locale spoglio, dalle pareti bianche, c’è l’enorme Libro dei nomi. I diversi tomi sono sistemati verticalmente. Chiunque li può consultare. I nomi sono in ordine alfabetico, con la data di nascita (quando possibile) e il paese d’origine. Accanto a troppi sta scritto «luogo della morte sconosciuto». L’indicazione «ucciso ad Auschwitz» è ricorrente. Il pensiero corre a Liliana Segre e alla straordinaria lezione svolta a Lugano il 3 dicembre 2018 davanti a 500 studenti liceali riuniti nell’aula magna dell’USI. Sfogliamo il librone alla lettera S. Quante vittime con quel cognome!

Shlomo Venezia, ebreo di Salonicco, deportato ad Auschwitz Birkenau l’11 aprile 1944 con la madre, il fratello e le tre sorelle (sopravvisse solo lui con il fratello e la sorella maggiore), venne inserito nel Sonderkommando che doveva operare proprio alle camere a gas e ai forni crematori. Dopo decenni di silenzio scrisse Sonderkommando Auschwitz, pubblicato nel 2007. «Non ho più avuto una vita normale (...). Tutto mi riporta al campo» vi si legge. «È come se il “lavoro” che ho dovuto fare laggiù non sia mai uscito dalla mia testa. Non si esce mai, per davvero, dal crematorio». Il tragico incombere della memoria.

In questo articolo: