«Il giorno che cambiò l’Italia non dovrebbe essere dimenticato»

Sono trascorsi 43 anni dal giorno in cui le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro aprendo uno dei capitoli tuttora più oscuri della storia della cosiddetta «Prima Repubblica». Cinque processi (e un sesto archiviato) e più commissioni parlamentari d’inchiesta non sono servite a stabilire la verità sulla vicenda. In libreria torna con una nuova edizione il libro che racconta la storia del giorno in cui Moro fu rapito. La storia di giovedì 16 marzo 1978.
Giovanni Bianconi, inviato del «Corriere della Sera» e storico della prima Repubblica, ha scritto moltissime pagine sugli anni di piombo in Italia. Il libro sul giorno in cui fu rapito Aldo Moro è insieme un reportage e una riflessione sugli eventi. Cronaca e storia, che s’intrecciano senza soluzione di continuità. Bianconi, perché il 16 marzo 1978 è così importante nella storia d’Italia?
«Perché è un giorno in cui questa storia viene deviata in modo definitivo. Ho sempre pensato che in un Paese come il mio, in cui il crimine ha molto influito, ci siano due date decisive: il 16 marzo 1978 e il 23 maggio 1992, il giorno della strage di Capaci, quando la mafia - uccidendo Giovanni Falcone - toglie di mezzo Giulio Andreotti dalla corsa alla presidenza della Repubblica. Lo stesso era accaduto 14 anni prima con il rapimento, e poi l’uccisione, di Aldo Moro».

Pensa che tra gli obiettivi delle BR vi fosse anche impedire al presidente della Democrazia Cristiana di salire al Quirinale?
«All’epoca era dato quasi per scontato che Moro fosse il candidato naturale alla successione di Giovanni Leone, un po’ come oggi tutti dicono che Draghi sarà sicuramente colui che prenderà il posto di Sergio Mattarella. Si dice, ma poi bisogna fare i conti con la realtà. Nel 1971 Moro era stato fregato dalle varie correnti della DC, ma sette anni dopo le cose erano diverse. Alla segreteria del partito c’era Benigno Zaccagnini, che era un suo uomo>.
E le BR che ruolo giocarono in questa partita?
«In realtà, penso nessuno. Le Brigate Rosse non erano interessate a questo passaggio istituzionale. Personalmente ho sempre creduto a quello che i brigatisti hanno più volte detto, ovvero che il loro obiettivo fosse imbastire un contro-processo mentre in Corte d’Assise, a Torino, erano alla sbarra i vertici del gruppo terrorista. Va ricordato che il dibattimento di Torino era stato rinviato già due volte: nel 1976, dopo l’assassinio del procuratore generale di Genova Francesco Coco; e nell’aprile 1977 dopo l’omicidio del presidente degli avvocati torinesi, Fulvio Croce, il quale aveva accettato la difesa d’ufficio di uno degli imputati».
Quindi le BR volevano processare la DC mentre lo Stato processava le BR. Però Moro venne rapito nel giorno in cui il governo Andreotti si sarebbe dovuto presentare alle Camere.
«Sì, ma credo che sia stata una coincidenza, certo simbolica e straordinaria. Il sequestro era stato organizzato da mesi, prima ancora della crisi che avrebbe portato al nuovo governo».
Resta il fatto che il rapimento di Moro cambiò la posizione del PCI di Enrico Berlinguer, orientato forse a non votare la fiducia a un governo del quale facevano parte troppi notabili della vecchia DC.
«Nel PCI c’era una forte resistenza a votare il governo, tanto che fino a poche ore prima lo stesso Moro si era raccomandato con Berlinguer. Il rapimento cambiò tutto e determinò anche la fermezza e la rigidità della posizione che il PCI tenne da quel momento in avanti. Il PCI doveva legittimarsi e fu costretto a bollare le BR come una forza diversa da sé. Diventò così ancora più feroce nei confronti del suo principale interlocutore».
Alla fine, i comunisti votano la fiducia, entrando per la prima volta (dopo il ’48) nell’area di governo. Una scelta che molti avrebbero voluto impedire.
«L’approdo del PCI a noi può sembrare normale ma nel 1978 siamo in piena guerra fredda. In Italia la presenza del più grande partito comunista occidentale è un elemento critico, soprattutto per gli alleati della NATO. Gli USA vedevano tutto questo con preoccupazione e anche l’URSS era contraria. L’ostilità degli americani verso Moro, artefice con Berlinguer di questa svolta, era evidente».
Sono trascorsi 43 anni da quel giorno. Che cosa rimane, oggi, nella memoria degli italiani, di quei drammatici giorni?
«Non lo so, credo poco. Io all’epoca avevo 18 anni, quel giorno me lo ricordo perfettamente. Era un periodo di fermenti sociali fortissimi e violenti, in edicola si vendevano giornali in cui si parlava di insurrezione armata. Oggi il ’78 è distante, è un periodo lontano e dimenticato ma sarebbe bene che ciò non fosse perché certi meccanismi dell’evoluzione sociale sono da conoscere. Il nostro problema è che nei licei si studiano gli assiro-babilonesi e non il ’900».
La strage di via Fani: la scorta uccisa in pochissimi istanti
Roma, giovedì 16 marzo 1978: poco prima delle 9 in via Mario Fani, quartiere Trionfale, un commando di terroristi blocca all’incrocio con via Stresa l’auto con a bordo il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e quella della scorta. I brigatisti, alcuni dei quali indossano divise dell’aviazione civile, aprono il fuoco e uccidono, senza dare loro scampo, il maresciallo Oreste Leonardi, l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, gli agenti di polizia Giulio Rivera e Raffaele Iozzino. Il vice brigadiere Francesco Zizzi, gravemente ferito ma ancora in vita, muore poco dopo in ospedale.
Il libro
«16 marzo 1978» di Giovanni Bianconi (Laterza, 2021, pagine 240, euro 12) racconta ciò che accadde il giorno del rapimento di Moro, lo stesso nel quale il PCI votò la fiducia al IV Governo Andreotti.
