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Il mio vicino Adolf, tra memoria e pregiudizi

In Piazza Grande il film del regista israeliano di origini russe Leon Prudovski, interpretato da David Hayman e Udo Kier – La recensione
Marisa Marzelli
05.08.2022 06:00

Dopo gli schiamazzi visivi e sonori di Bullet Train, che aveva inaugurato le proiezioni serali (7.200 gli spettatori in Piazza Grande, con altre centinaia al Fevi), il grande schermo all’aperto si è illuminato ieri sera per un film del tutto diverso: Il mio vicino Adolf, del 44.enne regista israeliano di origini russe Leon Prudovski (anche co-sceneggiatore); una coproduzione tra Israele, Polonia e Colombia.

Dopo un breve e illuminante prologo nella Germania degli anni ’30, la vicenda si svolge nel 1960 in Colombia. Paese in cui si è trasferito il signor Polsky, un anziano scorbutico e solitario, unico della sua numerosa famiglia sopravvissuto all’Olocausto (l’attore britannico David Hayman).

Accanto alla casa di Polsky abita un tedesco suo coetaneo (l’attore germanico Udo Kier, il quale ora vive in California e si è sobbarcato venti ore di volo per essere presente alla prima locarnese). Polsky è convince che il vicino sia Hitler. Si rivolge quindi all’ambasciata israeliana, si documenta persino sul modo di dipingere di Hitler, smuove mari e monti per far arrestare quello che ritiene sia il Führer, ma nessuno sembra credergli. Allora, per raccogliere prove, tenta di spiare e frequentare il vicino di casa.

Nonostante la delicatezza della materia, il film utilizza a tratti toni da commedia, con comicità dalle venature ebraiche. Attenta ai singoli dettagli, l’intelligente narrazione è semplice, realistica ma capace di suggerire anche una lettura più metaforica.

L’ambiente rurale latinoamericano, discosto e quasi disabitato, coincide con il nostro immaginario di nascondiglio per gerarchi nazisti (il protagonista ebreo comincia a sospettare che il vicino sia Hitler mentre legge sulla stampa dell’imminente processo ad Adolf Heichmann, tenuto davanti al Tribunale distrettuale di Gerusalemme tra l’11 aprile e il 15 dicembre 1961). Accanto al tema classico della necessità di non lasciare svanire la memoria (ma anche quanto la memoria stessa sia liquida e sfuggente), il film parla di scontrosità e solitudine degli anziani, necessità di conoscersi meglio nel tentativo di superare i pregiudizi reciproci, come in un gioco di scacchi, passatempo che avvicina i due protagonisti.

La sceneggiatura incastra bene i singoli tasselli per giungere al sorprendente finale, sostenuta da un ritmo senza cadute. Ottima l’intesa tra i due protagonisti. L’idea del film, spiega il regista Prudovsky, risale a dodici anni fa quando, parlando con il co-sceneggiatore Dmitry Malinsky, avanzò l’idea - pensando ai propri nonni e al dramma dell’Olocausto che aveva segnato le loro vite - di raccontare una storia, in parte di famiglia, senza precludersi però la scelta anche di scherzarci su. Una vicenda con la sua parte di oscurità, ma non un film politico e che gli artefici auspicano non sprofondi in discussioni politiche. E la selezione a Locarno è la conferma che si può mostrare anche con tono leggero, in modo creativo un tema terribile. Le riprese di Il mio amico Adolf sono terminate pochi giorni prima della pandemia, poi il film è rimasto fermo per due anni, infine venduto in varie parti del mondo, Stati Uniti compresi.

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