Intervista a renato martinoni

«Il panorama politico è sconcertante»

Partiti, social media, degrado civile: l’amara analisi del professore emerito a San Gallo
Per Renato Martinoni anche nel nostro cantone siamo avviati verso un degrado civile nutrito dallo spirito dei tempi, pilotato da gente mediocre e senza scrupoli e veicolato dai social media. (Foto Reguzzi)
Bruno Costantini
27.02.2019 11:18

Studioso, scrittore e traduttore, promotore di cultura e punto di riferimento dell’italianità in Svizzera, è stato per trent’anni professore di letteratura italiana all’Università di San Gallo. Renato Martinoni è però anche un acuto osservatore della nostra società e dei fatti e misfatti del Paese, con commenti spesso molto critici che consegna alla sua rubrica domenicale sul settimanale «Il Caffè». Anche nell’intervista che segue i suoi giudizi non risparmiano nessuno.

Professor Martinoni, come vede il Ticino di oggi?

«Tutto sommato meno peggio di altri Paesi a noi vicini. Il nostro cantone mi sembra però avviato sulla strada quasi irreversibile di un degrado civile nutrito dallo spirito dei tempi, pilotato da gente mediocre e senza scrupoli e veicolato dai social media, che vengono spacciati come templi di democrazia e invece troppe volte non sono altro che alcove di pettegolezzi fatti di banalità e di cattiveria. Si aggiunge poi un panorama politico sconcertante, molto demagogico e orientato, non sul bene di tutti, ma sui propri interessi. Insomma, di bassa caratura. Un mondo che finge di litigare per potere stare a galla. Chissà che, riunendo le forze, anche se è difficile farlo in un Paese di campanili, non si riesca a evitare il peggio. C’è ancora chi si illude che per combattere queste derive, per educare i giovani, per formare la gente alla cittadinanza, basti studiare il salmo svizzero nelle scuole. Ci vuole ben altro. Parliamo in classe di istituzioni e di patria, ma anche di ecologia, di etica e di valori sociali. Quando guardo il Ticino, e penso ai nostri figli, non posso non essere preoccupato. Sarà che più passano gli anni e più si diventa conservatori. Il che non significa essere reazionari. Ha detto lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia: “Il conservatore conserva il meglio, il reazionario conserva il peggio”».

Grazie ai nuovi sistemi di comunicazione oggi Tewanna Ray sarebbe un eroe politico

Nel 2004 lei ha dedicato un libro, con il taglio della narrazione romanzata, a Tewanna Ray, il finto capo dei pellerossa giunto in Ticino nel 1924 dopo essere stato celebrato e poi scaricato dai Fascisti italiani. Un mentitore abilissimo nel costruirsi una falsa immagine e che, con il suo olio di serpente, ha incantato anche parecchi (e parecchie) ticinesi, che a loro volta l’hanno poi scaricato e fatto processare. Chi era esattamente questo personaggio?

«Sbarcato dall’America Tewanna Ray, alias Cervo Bianco, è stato un eccelso furfante e un pioniere della comunicazione. Oltre mezzo secolo prima che la comunicazione diventasse la regina delle mode. Inventandosi un personaggio, quello dell’uomo perbene, un difensore della libertà e dei diritti dell’uomo, perseguitato per motivi politici. In realtà era solo un poveraccio, oltre che un bugiardo di sette cotte, che si esibiva sui palcoscenici di periferia. Il finto pellerossa ha ingannato un sacco di persone. Mettendosi una maschera e recitando abilmente la sua parte. Ha raggirato gente ricca e poveri tapini. Persone intelligenti e uomini sciocchi. Si è fatto ricevere in pompa magna da Mussolini e perfino dal Papa. Curiosamente la storia lo ha subito dimenticato. Sarebbe però più giusto dire: rimosso. Come si fa con i peccati che ingombrano la coscienza».

Ciò che è successo anche in Ticino. Ma che cosa ci insegna ancora oggi questa vicenda?

«Il nostro Governo ha invitato il falso indiano al Teatro sociale di Bellinzona per riverirlo con tutti i crismi (immaginarsi i discorsi che avranno fatto: non troppo diversi da quelli di oggi...) e per offrigli un brindisi d’onore. Anche se i giornali già stavano raccontando le sue bravate. Era un bell’uomo, Edgar Laplante (ecco il suo vero nome), elegante, abile con le parole, gli sguardi e i gesti. Quanti lo hanno toccato, mentre passava seguito da un codazzo di gente che lo acclamava? Quanti hanno baciato le sue mani sporche o gli hanno scritto? Per chiedergli dei soldi o per dichiarargli la loro ammirazione. Quanti lo hanno adulato? Poi, dopo l’arresto dell’imbroglione, tutti a saltargli addosso, in un linciaggio mediatico fino ad allora mai veduto. Dimenticando senza ritegno gli incensamenti di pochi giorni prima. Non fosse stato un truffatore che ha mandato sul lastrico varie persone, dalle duchesse straricche alla povera parrucchiera di Bellinzona, Cervo Bianco meriterebbe un monumento alla memoria. È stato un genio del Male che ha capito, ben prima dei Berlusconi, dei Trump e dei loro seguaci, i trucchi dell’apparire. Accanirsi su di lui, quando in tribunale e poi in prigione non poteva più permettersi neanche una sigaretta, dopo avere vissuto da nababbo, vivendo di menzogne, alle spalle degli altri, dopo avere fatto regali a destra e a manca, è stato un bel modo per lavarsi le mani da colpe e ingenuità ridicole e imperdonabili. La storia del finto capo di una grande tribù indiana ci insegna almeno due cose: è facile, anzi facilissimo, che la società si lasci ammaliare da figuri che promettono mari e monti. Tanto le bugie non costano nulla. È altrettanto semplice scaricare questi furbacchioni, non perché vengano puniti, come sarebbe giusto, ma per togliersi dalla coscienza il peso dei propri errori».

Rispetto a quell’epoca, oggi, come si diceva prima, la comunicazione passa soprattutto dalla Rete, dai social media, ed è diretta, senza intermediazioni né freni inibitori: tutti dicono tutto a tutti in tempo reale, mischiando verità, menzogne e insulti. In questo sistema un Tewanna Ray sarebbe messo alla gogna più in fretta o godrebbe di una definitiva consacrazione?

«Tewanna Ray combatteva la sua guerra, fatta di qualche ideale abborracciato, di molto egoismo e di spregiudicatezza, in un mondo diverso e assai più ingenuo del nostro. C’erano solo i giornali, le fotografie, il passaparola della gente. Grazie ai nuovi sistemi di comunicazione sarebbe diventato in quattro e quattr’otto un eroe della politica. Il Di Maio della televisione. Il Salvini dei talk show. Il Beppegrillo dei “sòscial”. Tutti ripetono che, grazie ai “sòscial”, ognuno finalmente ha la libertà di dire quello che pensa. Senza censure, ma anche senza un minimo di autocontrollo e di rispetto. Il mondo così viene inondato da maree di insulti, di menzogne, di stupidaggini vendute per saggezza o almeno per diritto alla parola. Certo, la censura è un obbrobrio e la libertà è bellissima. Ma la libertà è un dono che va rispettato e amministrato bene e con parsimonia. Non un diritto assoluto».

Spesso si cita la «società liquida» di Zygmunt Bauman, nella quale tutto è sempre incerto e non vi sono più chiari valori collettivi di riferimento, che un tempo venivano ad esempio dai partiti e dalla Chiesa, indipendentemente da posizioni e gestione del potere che potevano essere molto discutibili. Quanto è «liquido» il Ticino?

«È un Paese a volte schizofrenico. Da un lato si vorrebbero infilare radici dappertutto, si parla spesso a vanvera di tradizioni, di identità, di valori, veri o presunti, di cordoni ombelicali, e via di seguito. Dall’altro mancano sovente proprio quei legami e quella moralità che aiutano a crescere in modo sano. Dai partiti non vengono che pochi esempi seri, una superficialità che inquieta, un sacco di chiacchiere e tanta bolsa retorica. La banalità è figlia della mancanza di idee, la retorica sorella di uno spessore culturale fragile e antiquato. La Chiesa poi (quella che non si è infilata nei centri di potere, alfine di spartire la torta con altri) ha scelto di impegnarsi nel sociale, e questo è molto bello. Rinunciando però a combattere, facendosi sentire con vigore, in favore dei valori morali. Quei valori che sarebbe bene ricordare di tanto in tanto: ai fedeli e anche a chi non ama l’odore delle candele. C’è in tutti noi un fondo cristiano (sto parlando di cultura, non di fede): ecco un terreno in cui si dovrebbero piantare i semi dell’amore e della correttezza, non quelli della zizzania e dell’odio. Spiace doverlo dire: è una Chiesa latitante. Debole e disorientata. Forse perché è presa da troppi problemi al suo interno».

Anche la Chiesa è latitante, debole e disorientata, forse per i troppi problemi interni

In un’intervista del 2017 lei ha dichiarato che nel nostro cantone «chi è critico, chi non è funzionale alle istituzioni, chi non ha la capacità di saltare agevolmente sulla barca dei vincitori, non se la passa bene. Perché questo è un Paese vendicativo». È un problema di vincitori o di metodo che si autoperpetua a prescindere dai vincitori?

«È una tradizione che si perpetua. Anche se i vincitori non mancano mai di vendicarsi di chi li ha preceduti e poi ne approfittano per fare quello che loro stessi hanno criticato. Anche se appena il giorno prima giuravano il contrario, predicando l’onestà e maledicendo i “corrotti”. Ho vissuto l’ostracismo di chi non si allinea. Anche se, avendo sempre lavorato in altri cantoni, la cosa non mi ha mai toccato. La condizione dell’espatriato mi ha permesso di dire quello che pensavo. Su tutto e su tutti. Senza protezioni ma anche senza che nessuno potesse impormi il silenzio. Nel cantone Ticino non è concesso criticare, fuori dai partiti almeno, e neanche girare senza una patacca bene in vista sulla giacca. Se non ce l’hai te la mettono gli altri. Non mi identifico con un partito e voto le persone che stimo. Eppure sono un “pipidino”, e solo perché lo è stato mio nonno. Nel Ticino o sei di qua o sei di là. O sei liberale o socialista o verde o leghista. Devi essere un baciapile o un mangiapreti. Spesso chi appartiene a un partito disprezza l’avversario (o finge di disprezzarlo, perché poi in realtà si finisce sempre al grotto a mangiare e a bere insieme, e a darsi pacche sulle spalle). Va aggiunto che comunque è sempre meglio essere un nemico politico che un tale che si rifiuta di attaccare uno stemma sulla giacca. Come fanno a classificarti, altrimenti? Sei indigesto perché non stai in nessuna parrocchia. Meglio un avversario comunista che un avversario senza patacca».

La società ticinese non è però tutta bacata, vi sono molte persone che lavorano seriamente, che portano energie e iniziative positive in molti settori. Non pensa che, nonostante la sua visione pessimistica, occorra guardare anche a questo bicchiere mezzo pieno?

«C’è tanta gente seria, che lavora, che si impegna (pensiamo ai giovani, agli adulti, ai pensionati che operano con passione e abnegazione, senza nulla chiedere, nel campo sociale, per le istituzioni, per la cultura). Non fosse così sarebbe davvero triste. In questo senso sono d’accordo con lei: è il bicchiere mezzo pieno che ci dà conforto e ci aiuta a guardare avanti. Specie se nel bicchiere c’è del vino buono. Gli uomini passano e resta quello che hanno fatto. C’è sempre da augurarsi che le buone azioni siano più numerose delle malefatte e ci tengano lontano dal precipizio».

Per quarant’anni lei ha vissuto oltre San Gottardo occupandosi di lingua e cultura italiana e dei rapporti tra Svizzera e Italia. In Ticino resta però un irrisolto problema storico-identitario: a nord ce l’abbiamo coi balivi, a sud con gli italiani. Come se ne esce?

«Una volta si voleva essere svizzeri politicamente e italiani culturalmente. Era un bel sogno, un po’ retorico come lo erano i nostri avi. Fortuna che siamo svizzeri politicamente. Cosa vuol dire oggi essere culturalmente italiani? Identificarsi con la cultura italiana? D’accordo, con la tradizione, illustre. Ma non si può vivere solo di rendita. Intanto, senza la Svizzera (specie quella tedesca), saremmo messi molto male. Per questo penso che, non solo è sbagliato prendersela con i balivi, ma che ci vorrebbero più balivi. L’Italia è stata, è e sarà un riferimento importante. Ma c’è un’Italia che preoccupa, a cominciare dal suo quadro politico, costituito da una casta di venditori di fumo, per arrivare alle derive qualunquistiche che non fanno parte del nostro patrimonio e neanche della nostra cultura di vita. Dovremmo insomma saper prendere il meglio, con i fatti e non con le parole, dal nord e dal sud. Dato che non è come andare al supermercato, occorre almeno imparare a riflettere lavorando insieme. E allora si torna al solito punto. Abbiamo bisogno di una scuola che discuta i problemi e indichi delle strade politicamente, culturalmente e eticamente percorribili. Il lavoro va fatto con i giovani».

In Ticino non è concesso criticare e chi non ha una patacca sulla giacca è indigesto

In definitiva, cosa siamo noi ticinesi?

«Da tanto tempo me lo chiedo. Pare che un mio bisnonno ripetesse volentieri: “Siamo quello che siamo”. Siamo il nostro carattere, i nostri difetti, i nostri peccati, la nostra quotidianità, la nostra storia, la nostra “identità”. Siamo i figli del passato. Un passato aspro che ha lasciato delle tracce, molta durezza nel temperamento, capacità di resistere (cioè testardaggine) e di adattarsi; meno facilmente il dono di essere aperti e generosi. Nel bene e nel male. Il male peggiore sta però nel fatto che non c’è più tempo per fermarsi e riflettere».