Medio Oriente

Il piano shock di Trump per Gaza: «Un pericoloso gioco al rialzo»

La lettura dell’esperto Giuseppe Acconcia: «Un deterrente per spingere Hamas a rispettare gli accordi, altrimenti sarà escalation in tutta la regione»
©Abdel Kareem Hana
Francesco Pellegrinelli
05.02.2025 20:15

Quasi fosse un’enorme operazione immobiliare: via due milioni di palestinesi dalla Striscia di Gaza – che loro chiamano patria – per far posto a una località turistica internazionale. «Una Riviera del Medio Oriente» – l’ha definita Trump – progettata, ricostruita e controllata interamente dagli Stati Uniti che ne diverrebbero i proprietari «a lungo termine».

La soluzione per Gaza annunciata martedì notte dal presidente USA Donald Trump, in occasione della visita del premier israeliano Benjamin Netanyahu, è un piano shock. Eppure, questa dichiarazione – spiega al CdT Giuseppe Acconcia, docente di Geopolitica del Medio Oriente all’Università di Padova – si inserisce perfettamente nella linea politica che Trump ha sempre seguito rispetto al conflitto israelo-palestinese. «Ricordiamo che Trump ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle Alture del Golan, annesse unilateralmente nel 1967, e ha spostato l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme. Inoltre, appena insediato per il secondo mandato, ha cancellato le sanzioni contro le colonie israeliane e ripristinato le forniture di armamenti, bloccate dal suo predecessore Joe Biden. Ha persino dichiarato che potrebbe riconoscere le colonie israeliane in Cisgiordania, che, secondo il diritto internazionale, sono illegali».

Oltre a rappresentare una flagrante violazione del diritto internazionale, secondo l’esperto il piano di Trump ridurrebbe soprattutto al minimo le già esigue possibilità di pace e stabilizzazione in Medio Oriente, compromettendo ulteriormente la prospettiva di uno Stato palestinese autonomo nella Striscia.

No compatto

«Qualsiasi idea di questo tipo non può che infiammare la regione», ha reagito Hamas, seguita dalle dure prese di posizione di molti Paesi arabi. Il piano di Trump per ripulire Gaza è stato respinto con una lettera firmata dalle autorità di Egitto, Giordania, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e dalla stessa Autorità Nazionale Palestinese, spiega Acconcia. Un no compatto che si scontra con la dottrina di Trump in Medio Oriente volta a favorire la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i Paesi arabi, in particolare con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, una linea già seguita con gli Accordi di Abramo nel 2020.

«Oggi il contesto è cambiato», dice Acconcia. «Da un lato, Israele ha assunto posizioni più dure, con una guerra che dura da 15 mesi e ha causato 48.000 morti nella Striscia di Gaza; dall’altro, i Paesi arabi sono sotto pressione dalle loro opinioni pubbliche, che sostengono la causa palestinese. L’Arabia Saudita, per esempio, chiede di abbozzare un piano che preveda la futura creazione di uno Stato palestinese; mentre Paesi come l’Egitto, dove le manifestazioni sono generalmente vietate, negli ultimi mesi hanno visto proteste pro-palestinesi, segno che la questione è altamente sensibile». Pur desiderando mantenere buoni rapporti con Israele, le leadership arabe devono quindi tenere conto delle sensibilità interne, e un trasferimento forzato di palestinesi rischierebbe di destabilizzare i governi della regione.

L'Egitto? Accettare un grande numero di palestinesi significherebbe accogliere molti sostenitori di Hamas, un’organizzazione che in Egitto è associata alla Fratellanza Musulmana, dichiarata illegale dopo il colpo di Stato del 2013

I conti senza l’oste

Sulla destinazione dei palestinesi, Trump ha dapprima formulato un generico «altrove», per precisare poi che l’intera popolazione verrebbe spostata nei Paesi arabi confinanti, dove potrebbero trovare «un buono, fresco e bellissimo pezzo di terra». Nonostante l’esplicito veto di Egitto e Giordania ad accogliere palestinesi nei loro territori, il presidente americano si è detto convinto che alla fine accetteranno. «E credo che lo faranno anche altri Paesi». Per quanto Washington abbia i mezzi finanziari per esercitare pressioni su Egitto e Giordania, Paesi fortemente dipendenti dal supporto americano, secondo Acconcia, «al-Sisi ha chiarito sin dall’inizio del conflitto che questa è una linea rossa invalicabile. Ha persino suggerito che i palestinesi potessero essere trasferiti nel deserto del Negev piuttosto che nel Sinai. Accettare un grande numero di palestinesi significherebbe accogliere molti sostenitori di Hamas, un’organizzazione che in Egitto è associata alla Fratellanza Musulmana, dichiarata illegale dopo il colpo di Stato del 2013. Per questo motivo, l’Egitto vede con ostilità un piano che prevede il trasferimento di palestinesi nel Sinai». D’altro canto, prosegue Acconcia, l’Egitto ha tutto l’interesse ad avere buoni rapporti con Israele, sia per il gas, sia per questioni geopolitiche.

Fa sul serio?

In definitiva, quindi, come vanno interpretate le parole di Trump? Fa sul serio oppure sta alzando la posta per ottenere un compromesso vantaggioso? «In teoria, la politica estera di Trump in Medio Oriente punta al disimpegno, evitando un coinvolgimento diretto in nuovi conflitti. Di fatto, però, il piano per Gaza sembra andare in tutt’altra direzione», osserva Acconcia. L’idea che gli Stati Uniti possano assumere il controllo diretto della Striscia di Gaza, occupandola «con tutti i mezzi necessari», avrebbe inevitabili ripercussioni regionali.

In questo solco imperialista, del resto, si inseriscono anche le recenti dichiarazioni sull’annessione di Canada, Groenlandia nonché la minaccia di riprendersi il canale di Panama, ricorda l’esperto. Al contempo Trump vuole apparire come un leader di pace, in grado di evitare conflitti durante la sua presidenza. «È possibile, dunque, che queste affermazioni servano solo come deterrente per spingere Hamas a rispettare gli accordi e favorire una seconda fase della tregua a Gaza». Se, invece, tali proposte dovessero concretizzarsi, «la regione rischierebbe di precipitare in una nuova fase di conflitto ed escalation», commenta ancora l’esperto.

Insomma, come già avvenuto con i dazi, ritirati non appena ottenute le concessioni sul fentanyl da Canada e Messico, anche in questo caso Trump potrebbe alzare la posta in gioco per negoziare una soluzione di compromesso favorevole al suo storico alleato. In caso contrario, avverte l’esperto, si tratterebbe di una pericolosa forma di pulizia etnica, destinata a far esplodere il conflitto in Medio Oriente.

Il ruolo dell’Iran

Non da ultimo questa mossa può essere letta anche in chiave anti-Iran, che dopo un periodo di maggiore distensione sotto Biden, è tornato ad essere il nemico numero uno degli Stati Uniti. «Non sorprende che Trump, nel suo discorso, abbia fatto riferimento a Teheran, dicendo di essere pronto a cancellare il Paese qualora tentassero nuovamente di ucciderlo». Trump ha annunciato nuove e durissime sanzioni contro l’Iran, dichiarando l’intenzione di azzerarne completamente le esportazioni di petrolio, una strategia già adottata nel suo primo mandato, spiega l’esperto. «L’obiettivo ufficiale è impedire a Teheran di arricchire l’uranio e sviluppare un’arma nucleare, ma questa politica rientra in una strategia più ampia di pressione economica e di destabilizzazione. Nel 2018, Trump si è ritirato unilateralmente dall’Accordo di Vienna sul nucleare iraniano e ha imposto sanzioni non solo all’Iran, ma anche ai Paesi terzi che acquistavano il suo petrolio, colpendo in particolare la Cina». Insomma, tra i molti destinatari del discorso di Trump, Iran e Cina sono sicuramente tra i primi della lista.